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 2020  luglio 18 Sabato calendario

Biografia di Gianna Nannini raccontata da lei stessa

Con quell’aria disinibita e muscolare che si porta dentro e fuori, Gianna Nannini sembra aver fermato il tempo all’adolescenza. Ma Gianna ha l’età per guardarsi indietro.

Perché il tempo trascorso, tra le tante cose, consente anche questo: rende più visibili le fragilità. Ha appena inciso un successo di Francesco De Gregori: La donna cannone. Perché questo omaggio, le chiedo: «Perché è una grande canzone, che parla dell’enorme mistero di un corpo e di leggerezza, perché la vita a volte sa mettere d’accordo gli estremi, offrendoti un biglietto di sola andata per il Paradiso». Nell’estate del silenzio e delle rinunce, ha dovuto rinviare al maggio del 2021 il grande concerto allo stadio Artemio Franchi di Firenze, la Nannini si lascia andare alle sue personalissime visioni.
Trent’anni fa scrivevi "Un’estate italiana", una canzone che parlava di notti magiche. Come stai vivendo questo periodo estivo?
«In modo quieto e appartato. Ho il tempo di pensare, di occuparmi di me e delle persone più care. E poi, lo so, c’è il paese, c’è l’Europa, c’è il mondo. Siamo in una strana dimensione, dove al bisogno di riconquistare vecchie abitudini si accompagna lo smarrimento di non sapere come sarà il nostro futuro. Navigo a vista».
Ti dà fastidio o ti preoccupa non determinare una rotta?
«L’ho sempre fatto. Il miglior investimento nel futuro è provare a fare belle cose nel presente. Non è detto che navigare a vista sia un limite».
Magari è un rischio?
«Rischiare mi piace. È un modo per mettermi alla prova».
Un tempo si sarebbe chiamato vitalismo.
«Che c’è di male. Essere vitali è la prova più convincente di non essere morti. Il problema è un altro».
Quale?
«Vivere sopra le righe implica una disciplina anarchica».
Un controsenso.
«Devi sempre reinventarti. È faticoso, complicato, rischioso appunto».
Ma a te piace rischiare.
«Certo, ma alla fine il rischio è come l’impronta del pollice. Solo tuo. Il rischio implica la seria possibilità che tu fallisca, che tu cada, che tu ti spenga».
Ti è accaduto?
«Non sono Wonder Woman. Dietro quella che vedi c’è una persona con le sue fragilità. Ma anche dotata di molta determinazione».
Fin da bambina?
«Se mi facevano un complimento diventavo rossa. Poi, c’era il mio modo personalissimo di guardare alle cose, che non collimava con quello degli altri bambini. Per esempio, detestavo il carnevale. I giorni che lo precedevano li vivevo con un senso di tristezza. I bambini vestiti da torero o da Zorro e le bambine con gli abiti della fatina o di Biancaneve mi provocavano un senso di estraniazione. Della serie: che ci faccio io qui? Mi sembrava che tutti avessero l’obbligo di ridere e di divertirsi».
Ti sentivi diversa, ma abitata da quali sogni?
«Fin da piccola volevo cantare. Cantavo, ogni volta che se ne offrisse l’occasione. Il babbo pensava a una fissazione ma credeva che sarebbe passata. Però, non volendo complicarsi la vita con le mie richieste, mi fece dare qualche lezione di canto da una maestra che conosceva e che in realtà faceva la pastaia».
Non il massimo dell’incoraggiamento.
«Invece proprio da una persona che non ti aspetti arrivarono consigli preziosi. Mi insegnò a tenere le note e a respirare con il diaframma. Fu decisivo il suo lavoro, prima ancora che sulla voce, sul corpo. E lì, in quei mesi apparentemente spesi per togliermi un capriccio, capii quanto importante fosse averne il controllo».
Hai un corpo androgino.
«Beh, corrisponde alla mia anima ai miei modi di sentire. Cos’è un androgino se non la sintesi tra i due sessi, tra le due forme che la natura ci ha dato?».
C’è anche una divisione di ruoli.
«Non ho mai fatto di queste distinzioni. Ho visto crescere il mio corpo, trasformarsi e me ne sono presa cura».
Non c’è in giro troppa ossessione per il corpo?
«C’è l’ossessione di non voler invecchiare. E questo porta a risultati francamente imbarazzanti. No, quello che voglio dire è che il mio corpo deve trovarsi in sintonia con la mia mente. Una strada che ho percorso è stata quella delle arti marziali: Karate e soprattutto Tai Chi. Mi piaceva sentirmi parte di un’energia che nasce dall’esercizio lento e intenso di alcuni movimenti».
Nelle arti marziali prevale l’idea del conflitto, dello scontro.
«Hai un’idea un po’ troppo condizionata dai film di Kung Fu».
L’Oriente ti affascina?
«Mi affascina il Giappone, meno l’India troppo esposta a rituali religiosi che comprendo solo in parte e che, importati da noi, rischiano di trasformarsi in caricature. L’India ti stordisce, il Giappone ti insegna. O almeno è quello che provo».
Del Giappone cosa ti piace?
«Un certo ordine interiore che corrisponde a una idea precisa che loro hanno del corpo».
A cosa pensi?
«Ti racconto un fatto che mi è accaduto. A un certo punto della mia vita stavo uscendo da una crisi abbastanza pesante e allora decisi che avrei fatto un viaggio in Giappone. Ci andai anche con l’intento di prendere lezioni di Kabuki».
Intendi il teatro Kabuki?
«Sì, un teatro completamente differente dal nostro. Kabuki si compone di due azioni contrastanti: l’esagerazione del gesto e l’improvvisa immobilità del corpo. L’effetto è stupefacente».
Cosa ti attrae?
«La grazia che si nasconde dietro l’inconfondibile trucco del volto e la fastosità degli abiti. Era un teatro fatto da donne e poi, per divieto imperiale, solo da uomini che interpretavano anche ruoli femminili. Mi sembrava il massimo dell’ambiguità creativa. Ma anche un modo sublime per riappropriarmi di una certa grazia femminile che avevo represso durante l’adolescenza».
Volevi imparare a sentirti una geisha?
«Il mito della geisha è cresciuto all’ombra di un’arte raffinatissima messa al servizio del piacere maschile. Ma penso sia sbagliato ridurre la geisha a una prostituta di alto bordo. La sua vera arte è di essere invisibile. La riconosci solo dal rumore del sandalo prodotto dai rapidi passettini. Oggi le geishe sopravvivono quasi solo a Kyoto. Ricordo che Hiromi Ito, la mia maestra, mi ha insegnato a camminare tenendo in mano il ventaglio.
Provenendo dalle arti marziali mi sembrava un passaggio curioso. Noi occidentali troviamo buffa quella coreografia. Ma in Giappone Kabuki è ancora oggi un genere popolarissimo».
Tu che rapporto hai con la popolarità?
«Se è il successo che intendi, beh non me la tiro. Non è perché qualcuno ti riconosce un talento, che allora tu devi fare il fico e sentirti una spanna sopra agli altri. La popolarità va e viene. Non credo che si arrivi mai definitivamente da qualche parte. Bisogna stare molto attenti».
A cosa
«Al fatto di provare l’inebriante illusione di correre. Ma spesso è come stare su un tapis roulant: corri, macini chilometri, ma non ti sposti di un metro. Ci sono due forme di successo: una ti stordisce e ti fa perdere il senso delle proporzioni, di quello che fai: corri ma in realtà sei fermo; l’altra ti matura, ti rende più forte e più guardinga. È raro che un artista imbocchi questa seconda strada».
Come è stata la tua carriera, quando ha avuto inizio?
«Volevo diventare una rockstar. C’è un po’ di retrogusto infantile in questa affermazione. Ma è così che mi vivevo. Mio padre da buon pasticcere voleva che mi occupassi dell’attività di famiglia. Credo di averlo abbondantemente deluso».
Però hai lavorato nel negozio di famiglia.
«Sì, oltretutto subendo un incidente, cioè lasciando un paio di falangi della mano nell’impastatrice. Di quell’episodio cruento mi è restato l’odore dei Ricciarelli, i biscotti che stavamo preparando, la vista del sangue e l’urlo terrificante che mi uscì dalla gola.
Rauco come il graffio di un grosso animale incazzato. So che da quel momento la mia voce è cambiata».
Abbandoni le certezze familiari e che fai?
«A 18 anni decido di andare a Milano. Lascio una lettera ai miei e parto. Trovo la sistemazione in un loschissimo alberghetto a ore. Mi mantengo in parte con i soldi dell’assicurazione, ricavati dall’incidente alla mano, e poi spero di essere ingaggiata per qualche manifestazione canora. Trovo anche il tempo di iscrivermi a filosofia. Mi affascina il pensiero. Ho voglia di capire il mondo».
E il mondo ti capisce?
«Per un po’ giro a vuoto: provini e sentenze inappellabili: hai una personalità troppo aggressiva, mi dicono. Hai una voce che sembra quella di un orco. Mi dicono. E io penso: sì, voglio essere un orco e un’orchessa. Perché no? Voglio spaventare il mondo che mi rifiuta. Poi a un tratto le cose cambiano. Durante un provino mi trovo di fronte una donna che mi sente cantare e comincia a piangere. È Mara Maionchi. Crede in me, nella mia voce.
Devo a lei la mia scoperta. Entro nel sistema dell’industria discografica».
Come ti ci trovi?
«Tutti vogliono dire la loro, e plasmarti. Gianna fai questo, Gianna non fare questo. Se ne fottono se stai bene o male. Sei un ingranaggio indispensabile di una macchina destinata a fare soldi».
Ognuno si ritaglia la sua parte.
«Vabbè, d’accordo, e poi?».
Poi niente. Ci sono regole, contratti firmati e soldi che girano.
«Se sei troppo giovane rischi di perderti o di essere risucchiata dal meccanismo. D’accordo i soldi. Ma senza un’anima non vai da nessuna parte. O almeno io non andavo da nessuna parte».
A proposito di soldi, il successo te ne ha portati.
Come li vivi?
«I soldi non si vivono, si usano, semmai. Io con i primi che ho guadagnato ho comprato un pick up rosa e un pianoforte con cui giravo per i Festival dell’Unità. Con i primi soldi veri mi sono regalata una Honda 500 nera e poi un lungo e proficuo viaggio in America. Però prima dell’America, c’era stata la Germania».
Era un tour?
«No, fui invitata a un programma televisivo a Baden-Baden. Arrivai con il pregiudizio che i crucchi sono noiosi. E invece trovai grande professionalità e un’organizzazione perfetta. Mi accorsi che nello stesso show c’erano Elton John e Gary Numan. Per una sconosciuta niente male. Erano abbastanza ambigui da coinvolgermi mentalmente. Quanto alla mia musica e alla mia voce, piacevano ai tedeschi. Bellissimi i ricordi di Berlino e poi di Amburgo, qualche anno dopo, con Sting a rifare le canzoni dell’Opera da tre soldi di Brecht e Kurt Weill. Ero Jenny dei Pirati, cantavo la sua storia triste di donna sfruttata. Ma la Germania per me è stata anche altro».
Cosa esattamente?
«Il luogo del dolore e della paura di non farcela. Ero a Colonia e un giorno, improvvisamente, si spense la luce.
Smarrimento totale. Stavo scrivendo una canzone e non ce l’ho fatta a finirla. Paralisi della mente. Non potevo più scrivere e neppure cantare: il respiro che si bloccava. Dovevo fermarmi. Prendere tempo. Non sentivo più le emozioni salire. Mi pareva che improvvisamente l’anima avesse smesso di respirare, abbandonando il corpo».
Come hai reagito?
«Ricordo che mi spostai in Svizzera con un paio di amici fidati. Fu avvertito mio padre che venne immediatamente. Si mostrò preoccupatissimo nel vedermi in quello stato di prostrazione. Eravamo soli uno davanti all’altra nella stanza dell’hotel dove mi ero rifugiata. Gli lessi la tristezza sul volto rigato dalle lacrime. Non l’avevo mai visto piangere. E pensavo: ma chi c’è davanti a quest’uomo: un fantasma, una figlia perduta, chi? Voleva portarmi direttamente in ospedale. Non ho voluto. Testardamente ho pensato che dovevo risalire la china da sola. Farcela per quello che ero stata e che volevo continuare ad essere. Niente psicoanalisi. Ho scelto l’autoterapia e non è andata male».
Accennavi all’America. Sei andata di recente a Nashville. Ma come è stato il primo impatto?
«Ci sono stata prima del Covid, per il mio ultimo album di inediti, La differenza, il diciannovesimo per la precisione. Ma la prima volta fu nel 1979 a New York, poi in California e lì realizzai il primo grande successo: California. Un album che in copertina ha la Statua della Libertà, che invece della fiaccola esibisce un vibratore».
Sai essere molto dissacrante.
«Bilancio la mia fragilità con l’irriverenza».
Il testo di "America", dice "fammi sognare". È un inno all’America vissuta con sensualità. Un inno al corpo e alle sensazioni che si riesce a ricavarne. Credo fosse la prima volta che si alludeva alla masturbazione.
«Una canzone molto dissacrante, dove il sogno dell’America diventava un’esperienza erotica. In fondo, quello che cantavo, con rabbia e potenza, era l’America che smette di indossare i panni del puritanesimo. In quell’album c’è anche un omaggio a Janis Joplin».
Ognuno ha i suoi santi in paradiso. Tu avevi Janis.
«Non l’ho conosciuta. Ma per me resta una specie di sorella maggiore. Quando morì nel 1970, comprai tutti i suoi vinili. L’ascoltavo cantare, come fosse lei l’unico essere vivente nell’universo. Lei nel vuoto puerile delle convenzioni. Mi ritorna in mente una sua frase: "Non comprometterti mai. Tu sei tutto ciò che hai". Da lì non ho mai schiodato».
Dieci anni dopo America scrivi "Un’estate italiana" insieme a Edoardo Bennato. Che estate fu quella?
«Intanto non volevo scrivere quella roba lì. Pensavo che musica e sport non andassero d’accordo. Si avvicinavano i mondiali di calcio. E la scrissi controvoglia. Mi sembrava più un omaggio al gusto dei discografici, che insistevano, che a me stessa».
Diventa tuo malgrado un successo internazionale.
«Sono cose che accadono, raramente, ma accadono.
Non te lo aspetti. Non ti aspetti neppure che sia bella una canzone che non avresti mai voluto scrivere e cantare. Ero triste e a disagio, come se qualcuno avesse passato della carta vetrata sul mio cuore. Il solo momento che ricordo con piacere fu l’inatteso incontro con Maradona, sul prato di San Siro. Lo abbracciai sentendo la sua forza. Non sapevo che avrebbe portato l’Argentina in finale ai mondiali del Novanta. Non lo sapevo e non me ne fregava».
Per la cronaca vinse la Germania. Il calcio non ti piace.
«No, non ci vedo nulla di eccitante».
Arti marziali a parte hai fatto qualche sport?
«Tennis. Ti dico una cosa: ero anche bravina e giunsi alle finali regionali nel singolo. Persi sei zero, sei zero. In quel momento decisi che avrei soltanto cantato. Anni dopo rividi la mia avversaria. Era Marta Dassù, anche lei deviata in un’importante carriera politica. Non mi riconobbe come la ragazzina che aveva schiantato. Le dissi: ti devo dire grazie, se non fosse stata per quella sconfitta forse non sarei mai diventata una rockstar».
Da cosa si riconosce una rockstar?
«Apparentemente dai Sold Out, dagli stadi che si riempiono, dalla gente che fa la fila per una foto o per una dedica, da quelli che ti seguono sui social. È il tuo rapporto uno a mille, oppure moltiplica mille per cento, e avrai la rockstar. Ma alla fine una rockstar si riconosce per lo stile, per il corpo e per la voce».
Come definiresti la tua voce?
«Un amico la definì rara. È una voce poco impostata che si affaccia sulle sonorità del Mediterraneo. Penso non sia importante cantare bene. È importante sapere che la tua voce si distingue da tutte le altre. È un’impronta. La tua impronta».
Però la devi educare. No?
«Certo, ti ho detto dell’incontro con la maestra che per vivere faceva la pastaia. Ma ricordo anche le lezioni di canto che mi diede Demetrio Stratos. Sapevo della sua collaborazione con John Cage. Sperimentale. Rigoroso. Imprevedibile. Faceva lezione al buio. Diceva che serviva per trovare la concentrazione».
Hai poi finito l’università?
«Anni dopo a Roma mi iscrissi alla Sapienza. Completai gli esami e feci la mia tesi di antropologia. Il tema che scelsi era sulla voce e il corpo. Mi ero imbattuta nelle ricerche affascinanti di etnomusicologia di Diego Carpitella. I suoi libri parlavano di movimento del corpo e di sonorità vocali legate alla tradizione. In fondo era, seppure solo in parte, il mio mondo. Discussi la tesi con un allievo di Carpitella: Francesco Giannattasio. Era una tarda mattinata di novembre. Mi sentivo particolarmente nervosa. Mi scolai mezza bottiglia di rosso. Tanto per tirarmi su. Passai a pieni voti. Qualcuno disse che la laurea avrebbe rovinato la mia carriera. Ti rendi conto? Stavo uscendo da un periodo di merda e la verità è che l’impegno nello studio mi rigenerò».
Ti lasci molto coinvolgere dalle cose che ti accadono intorno?
«Lascio che le cose accadano. Non è arrendevolezza. Né fatalismo. È che i gesti che accompagnano le emozioni, hanno una direzione. Sanno sempre dove andare. A volte la vita ti provoca entusiasmo. Altre è come se ti spedisse cartoline dall’inferno. Stare male non è augurabile a nessuno».
Ho letto una tua frase: "il dolore è inevitabile, la sofferenza è facoltativa".
«La sofferenza è una scelta soggettiva. La puoi accettare, combattere o rifiutare. Il dolore è un treno veloce che ti investe e che non puoi evitare. Ti travolge e, forse, se sopravvivi, ti fa crescere. Ma intanto è una gabbia che ti tiene prigioniero. Il dolore, diversamente dalla sofferenza, non ti fa lavorare. Ricordo che quando è morto Conny Plank — la persona più bella e più cara che abbia conosciuto — un genio del suono, restai come paralizzata. E ora che faccio? Con chi parlo e a chi mi affido? Entravo in uno dei miei down. Col tempo ho imparato a gestirli. Sapevo che sarei comunque stata pronta per rinascere».
Un momento immagino splendido è stata la nascita di tua figlia.
«È una strana gioia che provo. Come se il tempo di mia figlia Penelope si sia dilatato e abbia interamente occupato il mio. Molti mi hanno chiesto perché aver fatto un figlio alla mia età. Perché mi sembrava di non essere completa. Non è stato un atto di egoismo, ma di amore. Le cose sono belle se le senti belle. Non lo sono in sé. E la maternità è stata un’apertura al futuro».
Cosa pensi di consegnare a quelli che verranno dopo?
«È un punto che mi tormenta. Mi sono schierata per delle cause nobili, in difesa dell’ambiente. Sono stata in Iraq subito dopo la guerra. Ricordo una Bagdad spettrale. Con il coprifuoco dopo le otto. Quella sera, nella hall dell’albergo, mi misi al pianoforte e suonai la Patetica di Beethoven. Ho visto nella differenza delle culture un valore e non un ostacolo o peggio ancora una minaccia. Mi verrebbe da aggiungere, con un certo disincanto, che non abbiamo più "notti magiche". Ma non voglio crederci. Questa estate del lungo silenzio mi pare ci spinga a ripensare al nostro modo di essere. Non so se saremo capaci di essere all’altezza della situazione. L’occasione c’è. Perderla sarebbe l’ennesima conferma della stupidità umana».