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 2020  luglio 18 Sabato calendario

Lunga intervista a Vasco Rossi

«Siamo solo noi quelli che non hanno voglia di far niente»: e invece Vasco non sta fermo un momento. Se non può fare i concerti cammina, corre, va in bicicletta, sorprende continuamente i fan con rivelazioni che emergono dal suo passato, racconta le sue giornate, mostra le sue chitarre, le sue passeggiate, posta video live di canzoni come Lunedì in cui canta «passerò tutta l’estate qui, compresi i lunedì» per parlare di oggi con le parole di ieri. «Mi piace molto provocare. Il rock è provocazione. Chi mi segue capisce l’ironia di certe frasi che spesso significano il contrario di ciò che dicono», spiega.

Ma Vasco alla fine dei suoi concerti da tempo dice altre due cose importanti: «Siete solo voi» al suo pubblico e, soprattutto, «ce la farete tutti». «Certo, perché tutti ce la faranno: se ce l’ho fatta io che partivo da un paesino su in montagna… A me bastava trovare il mio posto, avere una mia piccola nicchia di persone a cui piaceva quello che facevo, certo non avrei mai potuto immaginare che invece potesse piacere a così tanti. Ma va bene anche se uno riesce a fare una cosa qualsiasi, non importa cosa e per questo dico che, in un modo o nell’altro, ce la farete.
L’anno scorso suonavo dal vivo contro la disperazione che sentivo già nell’aria e in questo periodo, che è ancora più difficile e non ci sono nemmeno i concerti, qualcosa bisogna pur fare…».
Esatto. Cosa stai facendo e che cosa farai questa estate?
«Adesso sono qua nel mio quartier generale a Rimini, città che ho sempre amato moltissimo e in cui sono venuto per tanti anni di seguito. Cosa farò? Ebbene sì, lo annuncio ufficialmente dalle pagine di Robinson: sono qui per buttare giù le idee per un nuovo album. "Evviva!" (ride e si alza allargando le braccia). Visto che non si possono fare i concerti, cos’altro potevo fare?».
E come sta andando?
«Bene, sta nascendo a poco a poco: ci sto già lavorando da un po’. Adesso non ti dico quanti pezzi ci saranno perché voglio tenere tutto ancora un po’ così… segreto! Però c’è il pezzo che sta maturando in questo momento che credo farà piacere a quelli che mi seguono. Insomma, per quest’altro anno che viene ci sarà sicuramente un nuovo album».
Nel 2020 niente?
«Quest’anno niente. Quest’anno c’è solo un obiettivo, ho lanciato anche l’hashtag: "Restare vivi, sani e lucidi fino al 2021". Per forza: è stato un disastro. Mi sono saltati tutti i piani. Anche le mie vacanze estive sono saltate perché il posto dove vado di solito resta chiuso. Ma il 2021 ripartirà tutto».
Davvero, niente vacanza, neanche un giorno?
«Ma sai, per me alla fine la vera vacanza è il lavoro: io in realtà in vacanza non so cosa fare! Sto bene quando sono attivo su qualche progetto, quindi fare il nuovo album ora per me è la cosa più importante».
C’è qualcosa di particolare che ti ha ispirato per questo disco?
«Sì. La cosa che mi ha ispirato è una frase. In realtà è l’incipit di una canzone che dice: "Siamo qui, pieni di guai" (Vasco qui canta: potete ascoltarlo e vedere il video sul nostro sito)».
Che guai sono?
«Eh, sono i guai della vita diciamo, perché la vita non è semplice ed è sempre tutta una mancanza. Sono stato ispirato nello scrivere queste canzoni da Lacan, anzi, non da Lacan direttamente ma da Massimo Recalcati: ho letto Desiderio, godimento e soggettivazione e mi si è aperto un mondo. La psicoanalisi è una mia vecchia passione, la coltivavo già da quando ero giovane, avrei voluto studiare psicologia, anzi per due anni l’ho proprio studiata. Avrei voluto fare lo psicoanalista se non avessi fatto il cantante».
Cosa ti ha colpito di questo libro?
«Il modo in cui inquadra le caratteristiche della nostra psiche: il godimento è mortifero mentre la proibizione apre la via al desiderio. Lacan vorrebbe superare la contrapposizione tra il desiderio trascendente e l’immanenza del godimento. La convergenza del desiderio con il godimento è l’amore. Questo, detto così, in breve».
Un’associazione immediata: Vasco che canta Rewind, uno dei suoi pezzi più famosi che dice: «Fammi godere».
A cantarla è un uomo. Ma, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, ai concerti sono invece le donne che se ne sono completamente appropriate, facendo con le dita il segno del sesso femminile, una sorta di "girl power" di tradizione femminista. E lo fanno spesso guardando i loro compagni che le tengono sulle spalle, con una certa aria di sfida, togliendosi il reggiseno e tirandolo in un vero e proprio rito liberatorio.
A proposito di "godimento" e sesso: ma come è nata Rewind?
«La canzone credo esprima bene quella voglia che ti prende, quelle voglia che c’è prima di… Insomma è il racconto di un rapporto sessuale! Quello che colpisce di questa canzone in effetti credo sia la sincerità di quel desiderio, di come viene raccontato, un desiderio che appartiene a entrambi. Non c’è un tentativo di seduzione, non c’è un tentativo di piacere o di compiacere, io non scrivo per compiacere ma per comunicare delle sensazioni».
Beh, non sono molti quelli che hanno cantato in maniera così diretta il piacere del desiderio, il piacere del sesso.
«Sì, canta quello: il desiderio. Ed esprime una sensazione di necessità. Dal vivo viene da dio, sarà anche complice il fatto che la musica è molto trascinante. Infatti quando la mettemmo nel disco la consideravamo una canzone carina ma non così eccezionale; quando l’abbiamo fatta dal vivo ha preso una potenza tale che adesso è diventato il pezzo che tutti aspettano e che proprio non puoi non fare».
Visto che stiamo parlando di donne, ti ricordi quando è stato il tuo primo amore?
«A sette anni. Io quando ci penso dico: "Ma dai, a sette anni, ma come è possibile?!". Ovviamente quando sei così piccolo non è che ti dici "ti amo" o "ti voglio bene". Ci si diceva solo "mi piaci": se tu dicevi a una ragazzina "mi piaci" e lei diceva "anche tu" si era insieme. Era questa la nostra unione e dato che abitavamo nella stessa scala, ogni tanto quando la incontravo, le dicevo: "Ma è ancora così?", "sì", e io provavo delle emozioni fortissime, ero tutto contento. Poi un giorno mi ha detto "no". E io: "Ma perché?", "adesso mi piace un altro", disse lei. Era uno che veniva su a Zocca in villeggiatura, come si diceva ai tempi: mi è crollato il mondo addosso. È stata la mia prima delusione d’amore».
A proposito di rifiuti da parte delle donne, ti abbiamo rivisto il primo luglio con il tuo concerto dei record al "Modena, Modena Park" come canti in Colpa d’Alfredo.
Trovo sia stato un inizio magistrale: vai sul palco e ti metti a parlare in mezzo a un silenzio stregato: fa venire i brividi.
«"Ho perso un’altra occasione buona stasera…" (ride recitando l’attacco del brano e fa un certo effetto risentirlo ad personam dopo averglielo sentito intonare di fronte a 200mila persone ndr). Era una sfida stare lì, davanti a tutti, senza cantare ma volevo che quell’inizio fosse una cosa molto intima, come un discorso interrotto tra me e il pubblico che riprendevo lì».
Hai avuto un notevole coraggio a iniziare con una canzone che, se uscisse così com’è oggi, con quella frase che segue subito dopo, "è andata a casa con il negro, la troia", verrebbe stigmatizzata immediatamente sui social network in nome del "politicamente corretto".
Invece non solo l’hai detta davanti a più di 200 mila persone ma è andata anche in onda in primissima serata su Raiuno senza che nessuno abbia detto nulla.
«Ad alcuni le mie canzoni possono anche dare una sensazione un po’ disturbante; lo capisco benissimo, forse anche perché non le ascoltano bene (ride). Oggi sì, probabilmente non sarebbe stato possibile per questa cosa del "politically correct" ma non era facile neanche ai tempi e, secondo me invece è ancora giusta, perché non è una cosa negativa nei confronti della donna: è una storia.
Chi racconta non deve dire solo le cose "corrette", non esisterebbe più niente altrimenti. Chi ascolta lo capisce: anche il "negro" indica quello che ha una "marcia" in più: può essere la macchina, i soldi o altro ancora. Si tratta di una descrizione molto gioiosa, vivace, vera: t’incazzi perché hai preso la sberla, la botta, e dici "è andata a casa con il negro, la troia!". Oggi dovresti usare un modo diverso ma non so se riusciresti a trasmettere la stessa sensazione, non funzionerebbe…».
Non credo che l’artista debba porsi un problema etico ma un problema, appunto, artistico. Sappiamo tutti che non solo sei stato cresciuto da donne ma che hai saputo raccontarle come nessun altro.
«Ho raccontato tanto le donne perché le amo profondamente e penso che questo amore venga fuori tra le righe delle canzoni; è vero che nell’arte uno deve potersi esprimere non solo liberamente ma anche in maniera provocatoria perché attraverso la provocazione ci si interroga: l’artista deve provocare le coscienze per mantenerle sveglie. Anche per tener sveglia la mia, perché anch’io mi addormento. Ho sempre avuto quest’immagine davanti a me: che quando sali sul palco devi essere vero, devi essere completamente nudo. E solo a quel punto allora io, spettatore, ti rispetto, perché vedo uno che apre la sua anima e che non è lì per farsi guardare o per farsi bello. Io quel modo di stare sul palco proprio non lo capisco».
Alla fine comunque l’amore l’hai trovato.
«Quando ho trovato la Laura ho riaperto il mio cuore.
Tutti i rapporti che avevo prima erano con delle amiche con cui stavo bene ma con le quali non mi mettevo mai in gioco, tenevo una parte di me chiusa perché avevo il terrore della sofferenza».
Cos’è successo per farti cambiare idea?
«Nell’87 ho incominciato a rendermi conto che la vita dell’artista che fa sempre quello che gli pare a qualsiasi ora, vive sempre così, libero da tutto, mi era venuta veramente a noia. La trasgressione a quel punto non era più quella di passare da un corpo all’altro ma di dire a una donna: "Sei solo tu per sempre e basta". Io non ero sicuro di riuscire a fare questa cosa, fare una famiglia tenendo in piedi anche tutta l’avventura artistica; molto merito va sicuramente a lei, anche se era un po’ pazzerella, parecchio vivace. Quello per forza, perché altrimenti non potevamo andare d’accordo. Tutti e due avevamo bisogno di costruire qualcosa di nostro, di avere un motivo per tornare a casa la sera. Altrimenti io ero sempre in giro...».
E poi è arrivato il figlio.
«Esatto. Io avevo avuto altri due figli, nati, diciamo così, per la provvidenza divina: di uno non ero al corrente perché lei non me l’aveva detto. Dell’altro, invece, la ragazza me l’aveva detto già all’inizio. Li ho riconosciuti subito, naturalmente. Ma non volevo vivere con le madri e quindi non sono cresciuti con me: gli voglio bene e sono parte della mia vita e ho sempre contribuito come potevo dal punto di vista economico; però non li ho potuti crescere e a volte mi sono sentito un po’ come derubato: è stata una sensazione strana. I figli, comunque, sono sempre una benedizione, è chiaro».
Non era il momento giusto. Invece, con Luca?
«Luca è stato il coronamento della storia d’amore e quando è arrivato io sono stato subito messo a posto: improvvisamente il mondo non gira più attorno a te, il che è una cosa molto salutare, che consiglio anche. E prima lo capisci, meglio è».
A lui piace disegnare, vero?
«Sì, disegna da quando era molto piccolo e vuole stare in quel mondo lì. La musica gli piace ascoltarla ma non farla, a parte un momento al liceo quando era entrato in un gruppo e faceva il cantante: un’esperienza che è durata un anno circa. Il bello è che lo sentivo in casa cantare con la cuffia senza musica e faceva degli urlacci che io dicevo: "Ma che cosa sta facendo?" (ride). Perché era una band heavy metal, capito? Ero anche un po’ preoccupato (ride)».
Credi sia stato difficile per lui avere un papà rockstar?
«Ha capito bene, stando con me, che quando uno è figlio di un artista famoso è molto difficile seguire la stessa strada. Non è come se uno fa l’avvocato che può dargli anche una mano… Per cui capisco, per esempio, Aurora Ramazzotti, quando si lamenta e dice "io sono cresciuta in un mondo di musica e di arte e voglio fare quello". Però è difficile. Perché non c’è solo il confronto con il padre ma anche il pensiero comune che vuole che sia tutto merito dell’agevolazione data dai genitori, quando questo invece non è proprio possibile. Infatti, secondo me, uno in realtà parte un po’ svantaggiato per tanti motivi; per esempio perché anche se non vuole è comunque sotto i
riflettori…».
E gli altri due ragazzi?
«Lorenzo ha preso anche lui una strada precisa e ha già una famiglia e anche una figlia; mentre l’altro, Davide, è un po’ più vivace. Vive a Roma e fa l’attore. Continua a fare figli, ne ha già fatto uno, credo che qualcun altro sia in arrivo, adesso vediamo (ride)… Però io non ho una famiglia allargata: si conoscono ma ognuno vive nel suo mondo».
Tornando alle cose che stai facendo in questo periodo: hai messo sui tuoi social, per la prima volta, la foto di Silvia, quella che ha ispirato una delle tue canzoni più intime.
«Sì, è proprio un bel tipo. Quando ho scritto la canzone non la conoscevo, abitava di fianco a casa mia ma poi è andata via da Zocca e quindi l’ho persa di vista. Ci siamo rincontrati solo qualche anno fa al paese e ci siamo scambiati i numeri e quando qualche giorno fa ho festeggiato sui social l’uscita del mio primo singolo, Silvia appunto, mi ha mandato un messaggio molto carino che diceva: "Forse sono stata un po’ impulsiva, però mi è venuto da mandarti questa foto". Era proprio lei! Era talmente perfetta che mi sono sentito anche orgoglioso e fiero di aver scritto il pezzo, perché la canzone descrive proprio quel viso lì, quell’espressione lì. Oggi è diventata professoressa di filosofia. Ho visto che questa storia ha colpito molto, anche l’Italia: tutti emozionati come me dalla fotografia. Dentro c’è tutto: gli anni Settanta, quella vita lì, il sogno del futuro…».
E la Giovanna, invece, l’hai più vista (Giovanna è la ragazza che ha ispirato uno dei capolavori assoluti di Vasco: Albachiara, con cui chiude da sempre tutti i concerti)?
«La Giovanna la vedo di più perché è rimasta a Zocca: anche lei è diventata professoressa e anche lei di filosofia, pensa un po’… Lei dopo un po’ l’ho conosciuta meglio perché faceva parte del coro quando ho deciso di fare… la messa rock!».
La messa rock? Tu, Vasco Rossi, la rockstar maledetta?!
«Infatti quando ho iniziato la carriera di musicista mi sono detto: "Beh, questa però non la raccontiamo troppo in giro! Mi sembrava un po’ in contrasto…».
E insomma, cos’è successo?
«Siccome mi annoiavo molto mi era venuta questa idea e così vado dal prete e gli dico: "Scusi, se io faccio la messa rock che cosa ne dice?". E lui: "Come una messa rock?!", "Sì, con le chitarre". "Ma sì, va bene, fate pure". E io: "Mi può dire quando si devono fare le canzoni? Tipo all’Offertorio e così via…?". Lui mi spiega tutto. E io ancora: "Ma per i testi?", "Boh, un po’ di canzoni sacre, fai quello che vuoi!". Così sono tornato a casa e mi sono divertito come un matto a inventare un po’ di canzoni. Poi c’erano queste tre ragazzine del coro di Zocca... Volevo dividerle a seconda delle voci ma loro invece volevano assolutamente stare insieme: la Giovanna, la Nadia, che sarebbe diventata la moglie di Fini (Floriano, il manager di Vasco, ndr), e un’altra. Erano le più carine del paese».
Com’è andata alla fine? Erano gli anni Settanta. Facevi politica?
«Insieme alla Paola, la mia prima storia seria, facevamo parte di un gruppo di teatro di strada. Eravamo gli Indiani Metropolitani: ci ispiravamo al Living Theatre e creavamo le nostre pièces con dei deliri vari. Poi ho incominciato a leggere i libri di Bakunin. Facevo parte degli anarchici a quei tempi, non ero con Potere Operaio, Lotta Continua cose così, perché, secondo me, chiamarsi Potere Operaio e fare lo studente aveva qualcosa che non tornava… Stessa cosa Lotta Continua: Lotta Continua finché vai a scuola poi basta, la lotta finisce. Io avevo dei compagni che si mettevano la giacca per andare all’università, poi tornavano a casa, si cambiavano, si mettevano i vestiti da fricchettoni con le borsine e andavano a vendere le collanine in mezzo alla piazza. Capisco: era tutto molto divertente ma era molto anche un gioco e allora chiamarsi Lotta Continua mi sembrava sinceramente esagerato... Per questo non ho mai condiviso le loro lotte, le loro idee. Noi invece pensavamo che dovevamo cambiare noi stessi per essere migliori, per avere autocontrollo. Pensa che quando sono andato a fare la visita per il militare avevo indicato i paracadutisti perché volevo vedere se avevo l’autocontrollo per riuscire a buttarmi giù da un aereo. Non me ne fregava niente del fascismo latente che poteva esserci in mezzo. Da anarchico che crede nell’uomo anarchico che si autolimita da solo, senza bisogno che ci sia la polizia, volevo mettere alla prova le mie capacità: la mia libertà finisce dove inizia la tua. Pensieri che ai tempi vivevo in maniera molto forte e convinta. Chiaramente un’utopia.
Poi crescendo le visioni cambiano anche se di fondo mai completamente: sto sempre dalla parte di quelli che hanno bisogno e non di quelli che li sfruttano. Libertà, autocoscienza e responsabilità: sono queste le cose in cui credo».
A proposito di ciò che dicevi su povertà finte e reali, le persone si trovano in grande difficoltà oggi.
«Per me quel periodo lì, non poter uscire di casa, la paura, hanno segnato molto la gente. A me ha segnato molto.
Purtroppo non sono troppo ottimista perché tanti sembrano ascoltare sirene varie che arrivano a sparare idiozie o anche che tirano fuori dal cappello magico soluzioni semplici. Solo che le soluzioni invece purtroppo non sono mai semplici e chi lo dice o è un genio o è un farabutto. Lascio pensare a quelli che leggono quale dei due. Aggiungo solo che di geni al momento in giro ne vedo pochi. Vedo invece dei gran farabutti pronti a dire qualsiasi cosa pur di conquistare un po’ di potere».
Pensa se fossi rimasto in America con Donald Trump.
«Là è un casino adesso. Credo che il fatto che un essere così ridicolo sia potuto diventare presidente degli Stati Uniti sia un segnale molto brutto. Vedere che questo personaggio arrogante, borioso è arrivato a questo punto… Speriamo che si riprendano...».
Perché volevi tornare a casa da Los Angeles? All’inizio l’America non era ancora stata toccata dal virus.
«Volevo vivere in Italia questa situazione perché io sono italiano, fieramente! E poi volevo ritornare dove avevo i miei affetti, i miei legami».
Ma tu che hai preso anche il famoso batterio-killer, non hai avuto paura del virus in qualche momento?
«Quella roba lì è arrivata come un conto che pensavo di dover pagare al mio fisico: l’avevo messo molto sotto pressione perché facevo concerti continuamente, scrivevo canzoni, non dormivo mai e… la campana è suonata! Ho passato dei momenti in cui avevo la consapevolezza di lottare contro una cosa che voleva farmi fuori (ride). È cominciato con un dolore dopo il concerto di Roma perché prima hai l’adrenalina che ti tiene su e per me che non ho mai avuto più di un’influenza è stata una cosa incredibile. Non ero mai stato in un ospedale e invece ci sono stato per due, tre mesi di fila: è stato lì che ho scoperto Facebook. Mi faceva molta compagnia, mi permetteva di stare in contatto con il mondo: ho scritto anche un sacco di stronzate ma cosa vuoi, non me ne fregava niente! Io sono fatto così: se non vado bene fatemi fuori! Quindi ho visto un mondo che non avevo mai visto: quello della sofferenza, della malattia, della morte. I medici, gli infermieri, sono veramente gente straordinaria e anche di questa esperienza ho fatto tesoro. A poco a poco mi sono ripreso, è stato come un lento risveglio alla vita e i primi due, tre anni sono stati fantastici. Giravo come incantato: torni ad apprezzare la bellezza delle cose più piccole che ti offre la vita, quelle che quando stai bene dai per scontate».
E quindi, oggi?
«Quindi per rispondere alla tua domanda, pur essendo anch’io un elemento a rischio anche per l’età, devo dire però che ho avuto più paura per mia mamma che è molto anziana. Adesso non sono più neanche troppo preoccupato. Adesso, eh! Perché penso che se anche lo prendo, me la cavo: ho questa idea nella testa e credo valga un po’ per tutti: siamo più preparati, i medici sanno come trattare il virus. Noi che abbiamo questa straordinaria cultura, diversa da paesi come gli Stati Uniti, per cui tutti abbiamo diritto a essere curati, ce la possiamo fare. Certo, bisogna star pronti, ma abbiamo dei bravissimi professionisti. Io credo molto nel professionismo».
Davvero?
«Pensa, ci ho sempre creduto, io, che dovrei essere quello più sconvolto di tutti (ride)! Ma ho sempre pensato che se fai le cose devi farle bene, oppure non le fai. Più che sconvolto, diciamo che sono stato sempre "diversamente lucido"!».