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 2020  luglio 18 Sabato calendario

Intervista a Miuccia Prada

Miuccia Prada s’è subito adattata al nuovo corso della moda dopo la quarantena. Sarà che è abituata ai cambiamenti, o che in questi mesi ha potuto finalmente dedicarsi solo ai vestiti che, dice, sarebbero il suo lavoro. Il problema è che oggi agli stilisti viene chiesto di essere politici, creatori di eventi e opinionisti, ma a lei non piace chi ha opinioni su tutto.

Preferisce riflettere e poi agire.
Come ha vissuto il lockdown?
«All’inizio con molta paura, passando tre ore al giorno davanti alla tv a seguire i notiziari, fino a quando ho capito che forse sarebbe stato meglio evitarli, almeno alla sera. Ma poi ho ricominciato a lavorare, prima da casa e poi con il mio team. Ero sola a casa: devo dire che me la sono cavata bene».
C’è stato qualcosa detto in questi mesi che non le è piaciuto?
«Il cliché del dopo Coronavirus, secondo cui tutti saremmo diventati più buoni, più intelligenti, più bravi. Invece gli intelligenti sono rimasti intelligenti, i superficiali superficiali. Detesto le retoriche. E poi, che senso ha parlare di qualcosa di cui non abbiamo ancora idea? Oggi possiamo solo reagire a ciò che accade. Come le sfilate di settembre, già confermate: certo, tutti sperano di andare in passerella, ma non è detto».
Si parla molto di sfilare meno, produrre meno, rallentare i ritmi. Lei che ne pensa?
«Sono temi importanti, che però implicano la fine dell’industria: bisogna esserne consapevoli. Meno prodotti e consumi richiedono un ripensamento radicale del sistema produttivo: non è un argomento da trattare con leggerezza, ma al contrario implica un grande sforzo. Trovo invece sempre più importante e attuale – non solo per chi fa moda, ma per qualunque persona pensante – il dibattito sulla sostenibilità, dal riutilizzo dei materiali alle lavorazioni a impatto zero: solo quattro anni fa erano discorsi vaghi, fumosi, ora è una realtà sempre più di peso. Me ne rendo conto con i giovani: tutti sono preparatissimi sul tema. La sostenibilità è possibile grazie a regole a cui tutti hanno aderito. Costa di più ma è fattibile».
Ha detto che ha ideato questa collezione chiedendosi a cosa serva oggi la moda. Dunque, a cosa serve?
«A creare degli strumenti da offrire alle persone, che li usano come preferiscono: se uno grazie a un mio vestito si sente meglio, sono contenta. Questo è il lato "vero" del nostro lavoro».
Il risultato rievoca molti dei simboli di Prada.
«È un momento particolare, perciò mi sembrava giusto riflettere su cosa piaccia a me e su cosa sia Prada. In un certo senso è un modo per azzerare tutto e ripartire».
Perché il pubblico è così attratto dalla figura dello stilista?
«Me lo chiedo anch’io da anni. Credo che il mondo si divida in chi la moda la ama e chi no, e sono in molti a non prenderla sul serio. Eppure si tratta di progettare su un corpo vivo, pensante e in movimento, intervenendo sulla sua sfera personale. Forse è proprio questo il punto: il vestito ha a che fare con le proprie insicurezze e con il proprio intimo, temi difficili da affrontare. Si deve essere molto coraggiosi – e molto intelligenti – per farlo».
Per raccontare la collezione via video s’è affidata a cinque artisti, lasciandoli liberi. Non è un rischio?
«Sì, e infatti avevamo un piano d’emergenza (ride, ndr ). Come designer io sono abituata a gestire lo spazio di una sfilata; dovendo lavorare su un video mi sono affidata a chi era in grado di farlo. Certo, aprirsi alle idee altrui è rischioso, ma è anche bellissimo. Forse anche per questo ho chiamato un altro designer, Raf Simons, ad affiancarmi: è un confronto tra opinioni anche diverse».
Ha descritto il rapporto con Raf Simons, che la affiancherà da settembre, come un misto di rispetto e antagonismo. Come vi gestirete?
«È un esperimento di condivisione della responsabilità in tempi difficili. Tra l’azienda e la Fondazione io sono abituata al confronto, anzi è una necessità continua. In senso più ampio, mi piacerebbe che Prada diventasse un luogo dove la gente si sente libera di creare, senza "la dittatura dello stilista". Con Raf non abbiamo discusso della meccanica, ma non credo sarà difficile. È un esperimento nuovo che richiederà un periodo di adattamento».
Queste sfilate digitali non hanno forse dimostrato l’importanza degli eventi dal vivo?
«Sono una sostenitrice delle sfilate, ma le dirò che l’inclusività insita nei video mi è piaciuta moltissimo. Vale la pena approfondirla».
Lei ha ribaltato l’estetica contemporanea.
C’è ancora spazio per simili capovolgimenti?
«Io ho introdotto la realtà in un sistema che tendeva a un ideale teorico e irraggiungibile di bellezza. Spazio di manovra ce ne sarà sempre, perché il mondo è in continua evoluzione. Però la moda riflette il presente, da sola non può fare nulla. Per questo rido quando si chiede agli stilisti di fare la rivoluzione ogni sei mesi: rivoluzione di che, se non succede nulla?».
I social media oggi amplificano tutto quello che si dice e si fa. Quanto la influenzano?
«Sto imparando ad occuparmene ora: non che ne ignorassi la portata, ma avevo intuito che sarebbe stato un lavoro in più, perciò finché ho potuto ho cercato di sottrarmi. Poi mi hanno fatto notare che io mi occupo di tutto, tranne che di quello che il mondo vede sul web. E lì ho capito che dovevo applicarmici perché è fondamentale. È uno strumento straordinario, da usare con estrema attenzione».
Prada è un colosso: ha mai pensato che fosse sin troppo grande?
«No, non mi è mai interessato essere di nicchia. Se dovessi fare vestiti per un gruppetto di persone sofisticate, ultra-modaiole, lavorerei a occhi chiusi, sinceramente. Mi appassiona di più confrontarmi col mondo, anche con chi non mi conosce, conservando la mia voce».
Con la sua Fondazione nella periferia milanese ha cambiato il volto della città. Le viene voglia di fare anche altro?
«Ci sarebbe la politica, ma solo quando sarò molto, molto anziana (ride, ndr ). Ho sempre detto che, semmai avessi deciso di occuparmene, avrei smesso di lavorare: non posso fare la politicante e la stilista del lusso. C’è chi dice che sbaglio, ma io la penso così».