Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 17 Venerdì calendario

Intervista a Fabio Fazio

Sottofondo di cicale canterine, Fabio Fazio è nella sua casa in Liguria mentre a Roma il direttore di Rai 3 Franco Di Mare gli dà il benvenuto: «Il suo arrivo è un approdo per una ripartenza, per affrontare nuove sfide: festeggia sulla terza rete il diciottesimo anno di vita del suo programma. Fabio è un asset non solo di Rai 3 ma dell’azienda».
Fazio, come a Monopoli, lei è nella casella “riparti dal via”.
Che effetto fa?
«Rai 3 è la mia rete, sono molto contento di tornare e di trovare l’entusiasmo del direttore Di Mare. Costruiremo cose nuove, sento che sarà un bel rapporto».
Quindi oltre a “Che tempo che fa” prepara un nuovo progetto?
«Sto ragionando su un programma dedicato alla storia della televisione, lieve, leggero: sto mettendo da parte pezzi di repertorio».
Sul modello di “Anima mia”?
«Quello era gioco personale dedicato alla tv degli anni 70, che ha dato vita a molti tentativi di imitazione. Stavolta saremo più larghi».
Facciamo un po’ di storia?
Approda a Rai3 dopo essere stato a Rai 1 e a Rai 2...
«A Rai 1 sono stati due anni difficili ma entusiasmanti, quasi 4 milioni di media con un programma di parola, che costa la metà di qualsiasi varietà. E non lo dico io ma la Corte dei conti, ci ha esaminato ai raggi X. Poi ci hanno spostato su Rai 2 e Che tempo che fa è stato il più visto della rete. Credo — immodestamente — che sia vitale e stimato dal pubblico.
L’altro giorno su Prima online è uscita la classifica dei programmi più seguiti sui social ed è primo anche quando non siamo in onda, con 24 milioni di views. Ho finito di imbrodarmi».
Bene. Gli “anni difficili ma entusiasmanti” hanno coinciso con gli ha attacchi dell’ex ministro dell’Interno Salvini, che l’ha citata 123 volte. Come li ha vissuti?
«Diciamo che è accaduta una cosa inusuale: un rappresentante delle istituzioni contro un conduttore.
L’atteggiamento della politica nei mie confronti non è stato irrilevante ma ho la fortuna di fare un mestiere che si rivolge al pubblico, conta la stima delle persone. È il trentottesimo anno di Rai, contano la sostanza e la maturità».
In cosa è diverso il suo programma?
«È intrattenimento e approfondimento, passo dall’intervista al primo ministro a fare la spalla a Luciana Littizzetto, poi arriva Frassica. C’è una quantità di linguaggi all’interno che è un po’come andare sulle giostre».
Si considera figlio della Rai 3 di Angelo Guglielmi?
«Incontrai prima il professor Rossini, poi l’arrivo di Guglielmi rivitalizzò Rai 3, dov’ero arrivato grazie a Mario Colangeli. Bruno Voglino era il padre del varietà con Guido Sacerdote e Antonello Falqui. Racconto come se fossi un marziano quando ero in radio a Black out (1982) con Sacerdote, Luciano Salce, Enrico Vaime, Simona Marchini. Grazie a loro ho fatto un master di gusto e linguaggio».
Era un giovane provinciale, faceva l’imitatore: come le appariva Roma?
«Venivo da Savona, Roma era irraggiungibile dal punto di vista culturale. Era come andare all’estero. Ci ho messo tanto impegno ma ho avuto tanta fortuna a fare quegli incontri.
Salce mi dava meravigliosi passaggi in macchina per l’aeroporto, non avevo i soldi. Mai capito perché la Rai non rimborsasse i taxi. La tv era un foglio bianco nell’ora di disegno dei bambini, avevi tutti i colori e inventavi».
Cosa rappresenta nella sua vita la Rai?
«No non dico mai “Rai”. Per me non è un’azienda, la Rai è parte della mia genetica. Ricordo la prima volta che ho visto Boncompagni a Via Teulada, il cuore che batteva quando ho incontrato Arbore.
Lavoravo con Loretta Goggi e la Carrà e i miei amici mi chiedevano di portare gli autografi. Una storia meravigliosa; averla vissuta da professionista, e per buonissima parte da pubblico, è un privilegio».
Però poi il rapporto si è incrinato: le polemiche sui compensi, la politica.
«La Rai è la somma dei dirigenti con cui lavori, degli artisti. Se fai un giochino non succede niente, se sei bersaglio del ministro dell’Interno il ruolo diventa un altro. Per mia fortuna ricordo le persone che mi hanno insegnato tanto: Dulbecco, Pavarotti, Morricone, Camilleri.
Non dimenticherò mai il pranzo a Sanremo con Giulietto Chiesa, l’ex dirigente della Rai Mario Maffucci, Gorbaciov e la signora Raissa».
Non le è bastato: è andato all’Eliseo per incontrare il presidente Macron. Si è pagato veramente l’aereo da solo?
«Sì. In quel momento Macron era il nemico del sovranismo... Ma guardo al futuro, a Rai 3 sento una grande energia».
Ha l’ansia degli ascolti?
«Ormai è antitetica alla televisione di oggi. Chiunque si confronti con i ragazzi sa che la parola “rete” o “canale televisivo” non ha senso.
Bisogna concentrarsi sul prodotto a prescindere dal vettore, perché poi si vede ovunque».
Sta dicendo che non cambia nulla: l’hanno seguita su Rai 2, ora spingeranno il tasto del telecomando sul 3. Non pensa che ci sia un pubblico diverso?
«Le cose non sono nette.
Assistiamo a un lento bradisismo che cambia le abitudini. Io credo che ci sia “la tv generalista”: in quanto collante-unificante, tv identitaria. Poi dire che si svolge secondo l’ordine dei palinsesti non mi pare credibile. Non penso che la tv venga vista per canale, è già fruita come piattaforma».
La tv generalista parla a tutti, ha degli obblighi, la piattaforma no.
«Indipendentemente da quanti comprano il pane che fai, devi farlo bene. Così dobbiamo fare bene i programmi. Guardi gli ascolti di oggi e li confronti con quelli di cinque, dieci anni fa. C’è una frammentazione enorme, non è pensabile dire alle nuove generazioni: “Stasera alle 21 c’è questo show”. Loro vivono on demand».
Ricomincia il 27 settembre: avrà gli spettatori in studio?
«Non lo so, forse no. Questi mesi di emergenza Covid sono stati durissimi, ricordo ancora quando il weekend del 7 marzo mi hanno detto: “Stasera non c’è pubblico, vai in onda?”. Siamo servizio pubblico, non puoi lasciare sole le persone. Questa esperienza mi ha insegnato tanto, dopodiché un comico ha bisogno dell’applauso».
Dopo il coronavirus le pare che siamo diventati più buoni?
«Bisogna avere l’onestà di dire che siamo vittime della bulimia, giustificata dall’idea del recupero, che ci porta a consumare tutto: tempo, territorio, affetti, noi stessi. Consumiamo. Abbiamo sprecato l’occasione che questa forzatura così feroce e dolorosa ci ha offerto».
Che cosa ha provato quando l’ha citata papa Francesco?
«Un senso di sconvolgimento.
Ecco, quella cosa lì rimette in ordine tutto, sono un privilegiato a fare il mio lavoro».