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 2020  luglio 16 Giovedì calendario

Una vecchia intervista a Franco Battiato

C’è stato un unico e mai ripetuto caso di un cantautore che ha fatto cantare l’Italia, che è diventato un idolo di massa, senza mai (o quasi) aver scritto una canzone d’amore, mai un cedimento sentimentale, solo la pura e raffinata arguzia del gioco combinatorio, la poesia esoterica, la vertigine degli accostamenti tra sacro e profano, l’unico nella storia capace di mandare in classifica un pezzo che parlava di “desideri mitici di prostitute libiche” e del “senso del possesso che fu prealessandrino”.

Era quello che stava succedendo quando ci siamo incontrati nella sua casa di Milano nel gennaio del 1982. Tutta l’Italia stava cominciando a cantare Centro di gravità permanente e Cuccurucu Paloma , ovvero le melodie del terzo disco della cosiddetta trilogia delle canzoni.
La voce del padrone era all’inizio del suo pazzesco volo, aveva appena superato le centomila copie e si avviava a superare il milione, in testa alle classifiche per 18 settimane, dal maggio a ottobre di quell’anno. Di lì a poco Battiato avrebbe riempito gli stadi con pubblici festanti che cantavano in coro citazioni di Theodor Adorno.
«Hai acceso il trabiccolo?» mi disse riferendosi al mio modesto registratorino a cassette. Sì, certo, e ci piacerebbe capire com’è nata questa vena di canzoni diciamo “leggere” dopo anni di sperimentazioni folli… «Bisognerebbe forse dire che ho cominciato per scherzo… Non è che per conto mio abbia la necessità di esprimermi attraverso la canzone, ed era questo che non mi faceva piacere i cantautori. Probabilmente la mia natura è quella del musicista modale, mi vedevo sempre in un’isola deserta e non mi veniva di cantare cose tipo Cerco un centro di gravità permanente, perché è un linguaggio che usi solo in funzione di una comunicazione verso altre persone. Quindi la svolta del Cinghiale bianco è nata per gioco. Adesso ho voglia di comunicare a una vasta platea, di vendere dei dischi. Ma lo potevo solo fare alla mia maniera. Di tradizionale c’è la struttura della canzone, ma la voglia di dire certe cose partiva da un presupposto di libertà, quindi di non avere limiti estetici, fino a costringere i testi a stare a certi ritmi musicali».
È stato laborioso?
«No, assolutamente. La prima canzone che ho fatto, e che trovo una delle mie più belle, è Il re del mondo , è venuta fuori a partire da quella frase iniziale: “Strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo stonasse con il ritmo delle piante sui balconi…”, che se ci pensi è tutto spostato di accenti, non è proprio consueto, poi andando avanti diventa più normale».
Come si definirebbe come artista?
«Esistono due categorie di musicisti, quelli che si posso chiamare “per adozione” e quelli “per essenza”. Credo di far parte della seconda categoria».
Si può spiegare meglio?
«Molta gente che conosco ha fatto questo mestiere per coincidenza, si son trovati a un certo momento della loro vita a fare un mestiere anziché un altro. Io credo di appartenere alla categoria di persone che non possono fare a meno di fare musica».
Degli eletti?
«Eletto è troppo, io dico per essenza».
Lei è uno di quelli che ha risolto molto brillantemente l’adattamento della lingua italiana su musiche ritmiche. Prima c’era riuscito Battisti. È stato un riferimento?
«A me è successo di detestarlo per una certa parte della mia vita, non sopportavo sentirlo cantare, poi a distanza di anni e soprattutto militando nel campo della musica leggera, come sto facendo ora attivamente, scopri veramente quando uno sa fare delle canzoni e Battisti ha fatto delle canzoni stupende».
Come procede all’elaborazione dei testi?
«Non so spiegarti tecnicamente come questo succeda, ma sicuramente ho molta predisposizione, di questo ne sono sicuro. E devono essere in italiano. Mi è successo di fare una versione in francese di Prospettiva Nevski , viene fuori “un vent a trente degrees dessous de zerò” non mi piace, non funziona… È tutto il contrario di quello che si pensava una volta, componevi in italiano, e ci mettevi “Yes I know”, e pensavidi aver risolto».
Cos’è successo a un certo punto che ha fatto scattare una mentalità diversa?
«È che arrivati un certo punto nascono degli allievi più bravi dei maestri, che fino adesso sono stati gli americani e gli inglesi nel prodotto della musica cosiddetta di consumo, ci hanno dato delle direttive. Poi trasmuti quei linguaggi con degli ingredienti tipicamente italiani che loro non hanno, che sono il gusto di una certa melodia e forse anche di napoletanità... Però con questo “napoletanità” voglio intendere una cosa molto personale, e cioè una specie di ironia che gli stranieri difficilmente hanno».
Il suo stile può diventare a sua volta un esempio? Potrebbe fare scuola?
«Aspettiamo».
Rimane il fatto che nei suoi testi c’è un inconfondibile gioco di combinazioni…
«Abbiamo detto già prima che si parte da un gioco. Però lo diciamo con le pinze, perché poi in effetti dentro queste canzoni ci metto anche delle parti mie molto serie. Ma c’è il gioco degli accostamenti, scarti e citazioni, e a volte sono per contrapposizione, uno debole e uno fortissimo. Anche perché dico magari frasi serie ma se dopo non ci metto una frase ridicola diventerebbe penoso per me sentire uno che dice certe cose. Ho utilizzato la tecnica del collage e in questo disco è esplosa, molte cose le ho messe così come mi vengono se mi metto alla chitarra e d’istinto suono pezzi che vengono dalla memoria, Lady Madonna piuttosto che Ruby Tuesday».
Questo collage elimina la possibilità di una comunicazione diretta e quindi emotiva, sentimentale…
«Sì, anche questo. Ma è difficile da spiegare. Entriamo in un campo analitico che secondo me ci fa perdere le tracce. È difficile stabilire se una cosa la fai perché non hai voglia di raccontare storie vere o, per così dire, dirette, se invece viene dalla necessità, che certe volte può essere più forte, di riciclare atmosfere passate o brani che sono stati importanti per il passato musicale, titoli di canzoni anche che ti piace riprendere, e comunque sia è un modo che forse si è esaurito, e nel prossimo disco ci sarà di meno o non ci sarà affatto».
Cosa succederà nel prossimo disco?
«Quello che penso adesso è un ritorno alle masse, in senso verdiano. Svilupperò quella parte, questa volta meno scherzosa e con più epicità, se vuoi una specie di farsa epica in cui avranno un ruolo delle storie, una sui vichinghi, che sta venendo molto bene, un’altra sul concetto dell’esodo, una specie di fuga da questo tipo di civiltà di massa, portandosi dietro lattine di birra e Coca-Cola... E un altro sulla danza, tutti i tipi di danze che mi interessano e che vanno dalle zingare del deserto che danzano con i candelabri in testa, che sono eccezionali, alla danza Kathakali, alle danze dei Dervisci tournant, tutto insieme in una sola canzone (sono le canzoni che usciranno nel disco successivo intitolato L’arca di Noè e in particolare Voglio vederti danzare, ndr)».
Da dove nasce questa sovrapposizione di sacro e profano?
«Forse perché sono ritornato all’inizio, quando ero bambino nel mio ambiente culturale, come lo si intende nel campo degli animali, e cioè cultura nel senso genetico, non si ascoltava sicuramente musica classica. Il sottofondo erano canzoni napoletane, anzi soprattutto le canzoni napoletane tradizionali, oppure le canzoni italiane. La musica classica l’ho appresa, se così posso dire, da grande, per volontà, per scelta, per sete di sapere. È proprio questo fatto che mi ha dato la possibilità di sganciarmi da quella che potrei chiamare “gabbia” di cultura non viva ma appiccicata, che è quella che nella maggior parte dei casi fa sentire la gente ineadeguata, preoccupata di esprimere giudizi su cose che sono considerate intoccabili. Ma lì è solo una questione di gusti, di personalità, ne ho viste di cose nel campo della musica classica abbastanza ridicole, cose che in realtà fanno solo ridere».
A proposito di sacro e profano, come ha preso il successo sanremese di Alice con la sua canzone?
«Ah, per me è stato il giorno più bello della mia vita, o quasi, mi devi credere, non lo dico con snobismo, innanzitutto ci tenevo che vincesse Alice. Ero in tour e la sera della premiazione noi suonavamo, quindi abbiamo suonato fino alle undici e mezza. Andiamo in albergo, eravamo a cena e tutti dicevano “non può vincere Alice perché l’Italia è dei Somarello... non so, qualcuno che concorreva, che cantava una canzone. Allora fanno la premiazione: terzo... secondo... Quando ha vinto Alice, a parte il piacere tipico della competizione, c’era tutto quello che rappresenta Sanremo, le tradizioni, le storie delle madri, tutti i Festival di Sanremo che io ho sempre visto anche quando facevo musica d’avanguardia... Mi è sempre piaciuto... Come fai a non vedere Sanremo?».
Quindi un piacere quasi infantile?
«Sì, molto infantile, quasi liberatorio, molto più forte della premiazione al Premio Stockhausen. A questo punto ne sono sicuro perché sono confrontabili, sono tutt’e due vicini... È un’altra cosa».
Sente affinità con altri cantautori?
«Sicuramente con Gaber, lui è un mio amico, soprattutto. Certo, la differenza che c’è tra Giorgio e me è che lui ha bisogno di crederci, per me è uno scherzo, lui invece deve vivere fino in fondo le sue canzoni. Però diciamo che alcune visioni, sono comuni. Lui mi ha detto che il suo ultimo spettacolo l’ha fatto contro di me. Affettuosamente s’intende. Mi ha detto che doveva cominciare dicendo: “In Italia o si è Pertini o si è Battiato”, che è molto pesante se ci fai caso. Voleva dire o si è Pertini nel senso di una persona completamente travolta dalla voglia della verità, o uno invece che è falso completamente, e lui voleva una strada nel mezzo. Poi però la frase l’ha cambiata».