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 2020  luglio 15 Mercoledì calendario

Convivere con la depressione

“Non stare mai tranquilli”. “Paura del mattino”. “L’orrore del proprio fisico”. Se è vero, come riporta uno studio dell’Università di Torino, che il 25 per cento degli italiani ha sviluppato una qualche forma di depressione durante l’isolamento, a molti non suonerà inaudito il grido che proviene dal meraviglioso Il campo di concentrazione (Guanda), il diario scritto da Ottiero Ottieri durante il suo ricovero alla clinica psichiatrica di Zurigo, dove soggiornò tra il 1970 e il ’71 per guarire da una nevrosi depressiva.
La depressione, già portata sulla pagina da Giuseppe Berto – che prese da un passo de La cognizione del dolore di Gadda il titolo del suo flusso della coscienza dolorosa (Il male oscuro uscì nel 1964, un anno dopo il capolavoro di Gadda), nel diario di Ottieri è una presenza totalizzante e feroce che ottunde i giorni sempre uguali della clinica.
Impossibile rimanere impartecipi: si sente “il bagliore bianco dell’ansia”, cromatismo complementare della “disperazione nera” sotto la cui scure Ottieri tiene il registro delle continue variazioni dell’umore, delle torsioni della psiche dentro spire maniacali. Scrittore sopraffino (autore del mirabile De morte, sceneggiatore de L’eclisse di Antonioni), Ottieri fronteggia il mostro con disseccata ironia: “Sono il più intelligente fra i pazzi, il più pazzo fra gli intelligenti d’Italia”. Trova un po’ di requie nelle visite della moglie, ma teme sempre “lo switch all’ora del tè”, il mutamento violento del pomeriggio; anche se la sera, come tutti i depressi, si sente meglio che nell’orrenda “banchisa polare” della mattina.
Fantastica sulle donne sane, le psicologhe e le infermiere, ma il ruminare non si traduce in vita vera: guarire vuol dire “l’azione, il divertimento, il lavoro, l’amore”, invece di questo incessante “mangiarsi nel dubbio”. La depressione, che per Gadda era una “perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere”, per Ottieri è “un reattore che succhia all’indietro tutte le forze, le assorbe nel processo pensatorio infinito”.
L’essere umano nudo sperimenta la “concentrazione”, che non è lucidità rischiarante e proficua, ma tensione mentale e promiscuità con gli altri pazienti, che “parlano lingue che non capisco”. Ci si riduce all’elementarità, “si sta attaccati alle più scarne origini, dormire, mangiare, lavarsi, vestirsi. Si sta a un centimetro dal suicidio”.
Il filosofo Karl Jaspers ha definito “abisso” il profondo disconoscere le origini di questi disturbi. La mente del “matto”, del depresso cronico, è impenetrabile. Nell’abisso è il titolo del saggio del neuropsichiatra Antony David appena uscito per Il Saggiatore, scritto nell’epoca in cui i neurotrasmettitori hanno preso il posto degli umori degli antichi: se un tempo si credeva nel sangue e nella bile, responsabile della melanconia, oggi si “crede” in dopamina e serotonina. Di malattie un tempo inesplicabili – e di dipendenze, bipolarismo, suicidio – si occupa David, che esamina casi clinici-limite: un paziente catatonico è convinto di avere un ordigno nucleare dentro di sé, in modo che se si muovesse l’intero mondo ne sarebbe annientato; un altro, dopo un incidente stradale, crede di essere morto (“delirio nichilistico”) o che i suoi cari siano stati sostituiti con dei sosia.
Assente – se non nelle forme della sedazione – all’epoca in cui scrivevano Berto e Ottieri, oggi la farmacologia interviene dentro i gangli invisibili del male. Sempre Gadda: “Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato”. Oggi la chimica ha sostituito la clinica concentrazionaria, coi suoi aspetti alienanti e coercitivi; gli strumenti di diagnosi neurologica come la risonanza magnetica sono in grado di individuare le cause dell’angoscia, la “roccia senza spacchi” di Ottieri, in lesioni cerebrali, dunque in spacchi organici. Dalle aree encefaliche lesionate può spirare quel freddo sentire. Ma se la realtà avesse bisogno della nostra struttura cerebrale sana per esistere nelle sue forme illusorie, e fosse invece la lesione, il difetto, a svelare la vera realtà? È l’interrogativo che resta sospeso nei libri magnifici di Oliver Sacks e che Gadda risolse con il ribaltamento del dubbio di Amleto: “essere” è conoscere il vero dolore (e viceversa); “non essere” è adattarsi placidamente alla vita e alla “turpe contingenza del mondo”.