La Stampa, 15 luglio 2020
Come siamo diventati marziani
Entro la fine di luglio tre nuove sonde partiranno per Marte: una americana, una cinese e una degli Emirati Arabi. Doveva partirne anche una europea, che è però stata rinviata per il Covid. Ma perché sembrano tutti impazziti per Marte? La colpa è anche di Giovanni Schiaparelli, l’astronomo piemontese che nel 1877 credette di avere scoperto sul pianeta rosso una serie di canali nei quali scorreva acqua. Si sbagliava, ma quello che pensava di avere visto dall’osservatorio di Brera a Milano fu l’origine di una serie infinita di congetture. Schiaparelli non pensava che i suoi canali fossero di origine artificiale, realizzati da intelligenze marziane. Ma la traduzione in inglese della presunta scoperta usò il termine «canals», canali costruiti, invece che «channels», la parola corretta per le conformazioni naturali.
Un altro astronomo, l’americano Percival Lowell, dedicò così molti anni a individuare testimonianze di ingegneria idraulica su Marte. Lowell non era un astronomo qualunque, gli hanno persino dedicato un osservatorio, e quando all’inizio del Novecento annunciò di avere davvero trovato canali artificiali, singoli e doppi, che dal Polo Nord del pianeta scorrevano verso Sud, tutti furono autorizzati a ritenere che i marziani esistessero davvero.
Decine di scrittori di fantascienza si misero al lavoro per spiegarci come erano fatti e che cosa bisognava aspettarsi da loro, una volta che li avessimo incontrati. Ognuno li vedeva come li desiderava nell’inconscio: su Marte c’era una dittatura, però era permessa la poligamia; la società marziana aveva eliminato ogni forma di emozione; vivevano in una società utopica di tendenze socialiste; erano certamente pacifici, ma era impossibile comprendere i loro ragionamenti.
Gli autori più famosi avevano idee altrettanto strambe: per Isaac Asimov i marziani vivevano nelle caverne, ma erano puro pensiero; nella Guerra dei Mondi di H. G. Wells erano crudeli e tecnologicamente avanzati, molto simili ai colonialisti europei che stavano soggiogando l’Africa. John Carter, l’eroe di Edgar Rice Burroughs, conquista negli Anni 20 le principesse di un pianeta morente, abitato da marziani di colore diverso in guerra fra loro. Ray Bradbury, nel 1950, immagina che i terrestri, come i conquistadores di Cortés, portino su Marte malattie e distruzione. Orson Welles, pochi anni prima, aveva letto la Guerra dei Mondi alla radio, fingendo che fosse un notiziario sull’invasione marziana. Molti l’avevano creduto vero.
E da dove potrebbero venire gli extraterrestri se non da Marte? È un pianeta come il nostro, solo più piccolo. Ha due poli ghiacciati, ha l’asse inclinato, è vicino, giorno e notte sono simili. Gli altri pianeti del Sistema Solare o sono gassosi, o troppo lontani, o troppo freddi o troppo caldi. Non c’è che Marte a lasciarci l’illusione che qualcuno possa avervi abitato, o che potremmo andarci noi quando avremo finito di distruggere la Terra. Bisogna dunque studiarlo bene, mandare sonde e spedizioni umane; e meno male, dicono i cospirazionisti, che oggi ci vanno anche i cinesi e gli arabi, così sapremo se la Nasa ci ha nascosto, come fa sempre, qualcosa.
La «Face on Mars», ad esempio. Il presunto volto di roccia fotografato dal Viking 1 nel 1976 è stato nel 2000 il tema centrale del film Mission to Mars di Brian De Palma, nel quale si immaginava che una civiltà extraterrestre, che aveva nel «volto» una delle sue basi, abbia fecondato la Terra con una manciata di Dna. Per quanto riguarda Marte, il padre di tutti i cospirazionisti è Immanuil Velikovsky, il sociologo russo autore di Mondi in collisione che insegnò a Princeton e divenne cittadino americano. Secondo lui, i cataclismi descritti nella Bibbia e in molti altri testi di antiche civiltà umane sono stati causati da una cometa originata da Giove, che ha orbitato intorno al Sole con un periodo di rivoluzione di 52 anni, creando sconquassi ogni volta che tornava. Questo corpo celeste, prima di diventare l’attuale Venere, si sarebbe scontrato proprio con Marte, un pianeta sul quale c’erano acqua e forme di vita, rendendolo il deserto che è oggi e lasciandogli a ricordo una cicatrice all’equatore lunga quasi 4.000 chilometri e profonda 8, che noi chiamiamo Valles Marineris.
Albert Einstein era amico di Velikovsky e si dice che dopo la sua morte una copia di Mondi in collisione sia stata trovata sul suo comodino. Chissà cosa pensava di quella incredibile teoria sulla fine di Marte e dei marziani: un’ipotesi sulla quale indagare con future spedizioni scientifiche, o più probabilmente solo un’affascinante storia con la quale cercare di addormentarsi la sera.