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 2020  luglio 15 Mercoledì calendario

Il diritto di parlare per gli altri

Una vena di pericolosa follia colpisce il linguaggio pubblico. Crollate o in declino le grandi narrazioni – politiche o religiose – si sono insinuate nel pensiero postmoderno pericolose tecniche retoriche. Se quelle erano repressive, queste sono segnate dall’intolleranza. Così scrive Douglas Murray, autore e opinionista britannico, nel suo La pazzia delle folle; un’anatomia del politicamente corretto, che l’autore preferisce chiamare: “politica identitaria” ovvero: «una politica che atomizza la società in diversi gruppi d’interesse in base al sesso (o genere), alla razza, alle preferenze sessuali e così via». L’esposizione è al confine tra saggistica e buon giornalismo, compresa l’abbondanza di aneddoti significativi sui temi d’attualità: gay, donne, etnie, trans. Concentro la recensione sul tema “donne” sia perché è quello più sviluppato sia perché si tratta di un argomento che compare spesso nelle cronache. Dalla fine del Settecento con le campagne di Mary Wollstonecraft (considerata fondatrice del femminismo liberale) e poi dalle suffragette ottocentesche, hanno avuto inizio le prime rivendicazioni con le quali le donne chiedevano pari diritti: politici ma anche ereditari, sulla tutela dei figli, sulla possibilità di chiedere il divorzio. Poi, negli anni Sessanta del Novecento, le femministe si sono battute soprattutto per i diritti riproduttivi (contraccezione, aborto, sicurezza dentro e fuori il matrimonio). Il fine era arrivare a un punto in cui le donne avrebbero potuto “giocarsela alla pari” con gli uomini. Dopo queste campagne, in gran parte vittoriose quanto meno nel riconoscimento giuridico, il femminismo, scrive Murray, ha debordato nel politicamente corretto. Un esempio: l’attrice Mayim Bialik raccontò un giorno di avere sempre avuto difficoltà con un’industria (Hollywood) che guadagna riducendo le donne a oggetti sessuali. Si potrebbe richiamare, a conferma, il celebre saggio Il sofà del produttore o l’altrettanto celebre confessione di Marilyn Monroe: «Arrivata a Hollywood passai molto tempo in ginocchio – non era per pregare»; pratiche oggi ignominiose ma a lungo ritenute “normali”. La Bialik sobriamente proseguiva: «Ancora oggi, a 41 anni, faccio scelte oculate che servano a tutelarmi...Vesto senza pretese e non mi comporto in modo civettuolo con gli uomini». Mayim Bialik intendeva semplicemente indicare una linea di condotta da lei ritenuta prudente, date le abitudini. Immediatamente altre donne della comunità di Hollywood l’accusarono di essere ricorsa alla “colpevolizzazione della vittima” ovvero dare la colpa del comportamento degli uomini al modo di vestire o di comportarsi delle donne. Un altro esempio è quello di un noto presentatore che fece notare come Susan Sarandon avesse presentato la sezione “in memoriam” agli Screen Actors Guild Awards con un vestito eccessivamente scollato. Venne inondato di mail di protesta con donne che si erano ritratte altrettanto scollate. Invano cercò di chiarire che voleva solo far notare l’inopportunità di presentarsi a seno quasi nudo per commemorare i colleghi defunti. Un semplice gesto di cattiva educazione, s’era trasformato in un pretesto rivendicativo.
Il politicamente corretto infatti è una specie di campo disseminato di mine pronte a esplodere sotto i piedi del malcapitato che esca dal sentiero dell’ideologia dominante. Certe regole di salvaguardia, nate per contenere il discorso pubblico nel rispetto delle minoranze, sono diventate una gabbia custodita da ringhiosi guardiani e guardiane pronte ad azzannare chiunque metta dentro una mano.
Altre forme della nuova misandria (opposto di misoginia) si presentano, scrive Murray, in modo più spensierato. Per esempio, si usa il termine mansplaining “uomini che spiegano le cose” per deplorare che un uomo abbia parlato di argomenti relativi alle donne.
Questa specie d’interdizione vuole che solo chi partecipa e soffre di una determinata condizione abbia il diritto di discuterne. C’è in questo un brandello di verità, limitata però ai sentimenti. Chi soffre di un’esclusione o è oggetto di attenzioni volgari soffre un disagio emotivo che chi osserva il fenomeno dall’esterno, per quanta empatia possa provare, non ha. Sul piano pratico però escludere gli uomini perché il problema riguarda le donne (o viceversa) significa rivendicare un’esclusiva controproducente proprio ai fini che si vogliono raggiungere. Le iniziali rivendicazioni femminili sono state portate avanti dalle sole donne. A loro va il merito, il coraggio, di averle presentate all’attenzione della società.
Oggi però ogni passo ulteriore verso una parità effettiva, richiede il più vasto concorso possibile, senza distinzioni di genere. Ci sono residui barbarici che possono essere estirpati solo da un comune concorso di forze. Per esempio, l’uccisione di una donna che chiede d’interrompere un rapporto. Solo con un’azione comune si può sperare di reprimere la reazione “o mia o di nessuno” che ha armato tante mani.
La retorica del politicamente corretto accentua invece le divisioni esistenti, anzi ne crea di nuove. Imporre l’esclusiva su certe virtù richiede che si esasperino questioni che andrebbero invece ricondotte ad una razionalità condivisa. Il pericolo maggiore è che per il timore di sembrare “scorretti” si reprima ogni dialettica su certi difficili temi di confine; che si arrivi addirittura a provocare un contraccolpo tale da mettere in pericolo i traguardi così faticosamente raggiunti. Mentre a sinistra ci si balocca con queste sottigliezze, la destra – ricordava Ezio Mauro – continua a scagliare le sue pietre.