In che senso, Law?
«Non potete fare affari con Pechino e svendere così i diritti umani e i valori sui quali è stata fondata l’Unione europea. Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno dimostrato che è possibile chiedere conto alla Cina delle sue malefatte. Ma non basta. Ci vuole un fronte internazionale in nome della libertà. Purtroppo, invece, Francia, Germania e Italia non si stanno esponendo allo stesso modo».
Perché?
«Perché, nel caso di Hong Kong, sinora non hanno difeso i valori della libertà contro quelli dell’autoritarismo. Quando questi Paesi parlano di “declino della democrazia”, dovrebbero guardarsi allo specchio. Lo abbiamo visto negli ultimi decenni: puntare solo sui rapporti economici e su un “appeasement” nei confronti della Cina ha legittimato l’autoritarismo di Pechino, invece di promuovere la pace e la democrazia da loro invocate».
Cosa dovrebbe fare l’Europa secondo lei?
«Schierarsi pubblicamente è già molto importante, perché mette pressione. Ma ci vogliono anche atti concreti, come le sanzioni americane, che vanno nella giusta direzione: bisogna fermare le esportazioni di armi e di alta tecnologia verso Hong Kong, perché lì oramai non c’è più la “rule of Law”. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un’alleanza internazionale per la democrazia e la libertà».
Cosa ne pensa dello stop a Huawei in Regno Unito?
«Giusto. Lo stesso dovrebbero fare gli altri Paesi europei. Huawei non è un’azienda indipendente, ma un’entità controllata dallo Stato che può avere accesso a tutti i suoi dati. Huawei ha una chiara agenda politica, basata su infiltrazione e sorveglianza».
Ma “l’esodo” di 3 milioni di “Hong Kongers” offerto da Johnson non rischia di minare la resistenza nell’ex colonia?
«Non verranno mai così tante persone qui in Regno Unito. Perché molti rimarranno a combattere: certo, siamo preoccupati, spaventati dagli ultimi eventi, ma anche più determinati che mai. Non molleremo mai. E gesti come questo del governo britannico sono anche simbolici: ci fanno sentire meno soli».
Lei si stabilirà qui a Londra?
«Non lo so. È stata una scelta difficile lasciare amici e familiari ad Hong Kong. Ma la mia non è una fuga, è piuttosto una mossa strategica, ossia fare da megafono estero a tutti gli attivisti che ora a Hong Kong non possono più parlare liberamente. Perché il vostro sostegno internazionale per noi è cruciale. Mi hanno incarcerato per mesi nel mio Paese, ma in maniera civile: ora, invece, anche le prigioni di Hong Kong potrebbero diventare luoghi di tortura come in Cina. Se cade Hong Kong, Taiwan subirà lo stesso destino. E chissà cosa accadrà poi. Per questo vi dico: non lasciateci soli».