Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 14 Martedì calendario

Perché non riusciamo a sviluppare il vaccino per l’Hiv

Sembra facile, recitava un’antica campagna pubblicitaria. Viene alla mente pensando ai numeri dei candidati vaccini per Covid-19, in fase di studio con modalità diverse, da quelle del “cavallo di Troia” fino al semplice virus attenuato. In tutto il mondo siamo quasi a 200 a pochi mesi dalla comparsa del virus e dalla decodifica delle sue caratteristiche genetiche e strutturali. Arrivare a uno o più vaccini in tempi brevi non sarà semplice, ma le speranze ci sono. E si auspica di non rimanere disillusi come accaduto per altre malattie, molto più “antiche”, che ancora oggi non trovano modalità di prevenzione con questa strategia o per le quali ci sono sì i vaccini, come quello per la tubercolosi o per la malaria, ma non hanno indici protettivi pienamente soddisfacenti. Pensate solo all’infezione da Hiv. Dopo pochi anni dal 1981, ad allora risale la prima pubblicazione che spiegava la “nuova” malattia virale, si parlava di un vaccino disponibile a breve. E non l’abbiamo ancora, perché il virus cambia spesso. Nemmeno siamo arrivati a una vaccinazione per il virus dell’epatite C e non si ottimizza più di tanto il vecchio vaccino per la tubercolosi. «Per arrivare a un vaccino, che deve essere approvato e non solo un candidato, occorre prima di tutto che il “bersaglio” che si punta non sia mobile altrimenti non si inquadra – dice Carlo Federico Perno, ordinario di Microbiologia e Microbiologia clinica dell’Università di Milano e direttore della Microbiologia dell’Ospedale Niguarda -. Poi è fondamentale che virus e microrganismi siano in grado di stimolare una risposta difensiva, cioè siano “antigenici”. Soprattutto il vaccino deve essere sicuro, perché si fa alle persone sane: anche se è efficace ma potenzialmente tossico, come è capitato per il vaiolo, non va somministrato. In ultimo deve avere una via di somministrazione semplice». Tre punti, imprescindibili, insomma, cui si lega l’aspetto della possibilità di facile somministrazione: queste caratteristiche guidano la disponibilità di un vaccino. Scorrendo le sfide ancora aperte, ci si accorge che è soprattutto sulla difficoltà di inquadrare l’invisibile bersaglio antigenico, ovvero le sostanze che possono stimolare la risposta difensiva, che si fermano i buoni propositi di ricerca. «Per il vaccino anti-Hiv il problema nasce dall’estrema mutevolezza del virus, che varia nel tempo e può variare, in termini di componente di antigeni ovvero di “segnalatori” sulla propria parete, anche nella stessa persona – segnala Paolo Bonanni, docente di Igiene dell’Università di Firenze -. Mentre i farmaci agiscono sui meccanismi di replicazione virali e sono estremamente efficaci, trovare un vaccino preventivo utile appare ancora molto difficile per la velocissima evoluzione del “mantello” esterno del virus: questo aspetto ha frenato la realizzazione di un vaccino per l’epatite C, ma oggi per fortuna abbiamo farmaci che eradicano il virus». Nella logica del “meglio che niente”, oggi c’è un vaccino che protegge dalla malaria, ma si cercano candidati migliori. «Il plasmodio che provoca la malaria ha diverse fasi di sviluppo all’interno del corpo e non abbiamo un vaccino che agisce su tutte queste fasi: oggi disponiamo di un vaccino comunque utile per i bambini, che dà una protezione intorno al 30-35%» conclude Bonanni.