Corriere della Sera, 14 luglio 2020
6QQAN40YANIMALI La diplomazia dell’elefante di Carlo Magno
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Nell’estate dell’802 Carlo Magno, «padre» dell’Europa (un’Europa da cui erano però esclusi l’Impero bizantino, la Spagna musulmana e il mondo barbarico al di là dei confini del regno franco) ricevette in dono un elefante. Al grande animale fu dato il nome Abul Abbas. Lo inviò ad Aquisgrana il califfo di Bagdad Harun al-Rashid. La particolarità di questo accadimento è che – come mette in rilievo il medievista Giuseppe Albertoni nel libro L’elefante di Carlo Magno pubblicato dal Mulino – quel regalo l’imperatore lo aveva esplicitamente richiesto. La prima biografia di Carlo Magno, la Vita Karoli, scritta da Eginardo – una delle principali personalità di corte nell’830 (circa), cioè sedici anni dopo la morte dell’imperatore – specifica che si trattò appunto di una «richiesta». Esplicita. Altri sovrani avevano e avrebbero avuto accanto a sé un elefante, ma nessuno di loro lo aveva mai «richiesto». Dettaglio non irrilevante, sostiene Albertoni, perché la volontà di Carlo Magno di avere con sé quell’animale va intesa come frutto di un «desiderio politico».
Probabilmente nell’802 nessuno dei sudditi di Carlo Magno aveva mai visto un elefante dal vivo. Anche se quell’animale già da secoli era conosciuto per esser stato portato nel nostro continente da Pirro re dell’Epiro (280 a.C.), da Annibale (218 a.C.), da Gneo Pompeo, che addirittura ne fece parte integrante dell’esercito romano. Era inoltre noto per essere stato minuziosamente descritto da Aristotele nella Storia degli animali (Duepunti edizioni) e da Plinio il Vecchio nella Storia naturale (Einaudi). Dei «giganti» con la proboscide avevano parlato diffusamente anche Tito Livio e, secoli dopo, Paolo Diacono.
Plinio in particolare aveva aperto con l’elefante la sezione della propria opera dedicata agli animali terrestri, ricordandone le «virtù» che ne facevano la bestia «più vicina alla sensibilità dell’uomo». Gli elefanti, scriveva Plinio rifacendosi ad Aristotele, «comprendono il linguaggio del luogo in cui sono nati e obbediscono ai comandi, sono capaci di ricordare gli esercizi che hanno imparato a eseguire, provano desiderio di amore e di gloria; inoltre, insieme di virtù rare anche nell’uomo, hanno onestà, prudenza, senso di giustizia, perfino rispetto religioso nei confronti degli astri, venerano il sole e la luna». Tutti consideravano l’elefante «un animale che adora i re» e la dimostrazione stava nel fatto che piegasse le ginocchia, quasi si genuflettesse al cospetto del padrone. Poi con l’affermazione del cristianesimo già in età romana imperiale, l’interesse per il mondo animale «si aprì a una nuova dimensione simbolica». E come spesso accadeva nella zoologia sacra cristiana l’elefante fu un animale dalla «simbologia ambivalente»: poteva rappresentare «la purezza di Adamo ed Eva», ma anche «la loro caduta e trasformazione negli archetipi dei peccatori». Lo storico francese Michel Pastoureau nei Bestiari del Medioevo (Einaudi) ha messo in luce come i sovrani medievali ricorressero ad una simbologia zoologica per definire sé stessi e le loro politiche. E Albertoni sottolinea come fosse abitudine degli intellettuali carolingi proprio il «parlare attraverso un linguaggio simbolico». È probabile che Carlo volesse quell’animale come parte importante, la più importante, di uno zoo regio che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere una sorta di «riproduzione del paradiso terrestre». Paradiso terrestre in cui Abul Abbas avrebbe rappresentato Adamo.
Quando Carlo Magno nel 797 decise di inviare dei suoi ambasciatori da Harun al-Rashid per chiedergli un elefante, compì quello che Albertoni definisce «un atto sicuramente unico all’epoca». Questa unicità riguardava l’oggetto della richiesta e, in parte, la volontà di chiedere un dono a un altro sovrano. Lo scambio di regali era sì un elemento centrale della diplomazia altomedievale. Ma le regole del gioco, come ha scritto la storica inglese Janet Nelson nel libro a più voci Le relazioni internazionali nell’alto Medioevo (Cisam), non erano «vere regole prescrittive». Erano soprattutto delle pratiche sociali «che avevano un loro codice, degli usi, dei simboli, che dovevano essere conosciuti per evitare fraintendimenti o crisi non volute». Ma che talvolta potevano essere «piegate alle necessità o alle volontà politiche».
Il dono diplomatico era soprattutto «connettivo», perché creava una rete tra i soggetti che ne venivano coinvolti, come ha messo in luce l’antropologo francese Marcel Mauss in Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (Einaudi). Ma tale connettività non era necessariamente pacifica. Talvolta dava luogo, magari volutamente, a delle tensioni. Come nel caso del «dono di ricambio» inviato attorno al 787 da Carlo Magno a Papa Adriano I, il quale, su sua richiesta, aveva mandato al re franco mosaici e marmi prelevati a Ravenna. Carlo a sua volta inviò al pontefice due cavalli, uno dei quali morì lungo il tragitto. Il Papa se ne adirò. Non tanto per la morte del cavallo, quanto perché gli parve che due ronzini fossero poca cosa a fronte di marmi e mosaici. Secondo Janet Nelson si trattò di uno «sgarbo calcolato», fatto in un momento nel quale le richieste di Papa Adriano al re «si stavano facendo troppo pressanti» e Carlo voleva mandargli un segnale ostile. Ma nel nostro caso, invece, l’invio di Abul Abbas ebbe un significato politico di grande rilievo.
Allorché, verso la fine dell’VIII secolo, gli inviati di Carlo Magno arrivarono a Bagdad, il mondo musulmano era nella fase di assestamento seguita alla crisi politica che aveva avuto il suo apice tra il 744 e il 750 a seguito dell’assassinio (661) di Ali ibn Abi Talib, cugino e genero di Maometto. Fu la crisi che portò allo scoperto gli sciiti, ovvero la «fazione di Ali». Contro di loro si schierarono gli Abbasidi, il cui capostipite era stato uno zio paterno del Profeta e il cui leader era in quegli anni Abul Abbas (non è necessario far notare che quel nome fu poi dato all’elefante per Carlo Magno). Abul Abbas ebbe un ruolo nell’avviare la dinastia califfale abbaside simile a quello che negli stessi anni aveva avuto per i franchi il padre di Carlo, Pipino, quando prese il potere deponendo Childerico III, l’ultimo re della dinastia merovingia.
Torniamo a questo punto all’estate dell’802. Il 20 luglio tornò dall’imperatore, dopo un lungo viaggio, l’ebreo Isacco che portava con sé alcuni doni inviati dal califfo di Bagdad Harun al-Rashid, «re dei persiani». Tra questi doni c’era, appunto, Abul Abbas. Anche in questo caso il momento storico era assai complesso. Nell’autunno precedente Carlo Magno era rientrato da Roma dove, il 25 dicembre 800, era stato incoronato imperatore. Era cioè «il primo anno nel quale il sovrano franco aveva iniziato ad operare ad Aquisgrana con il nuovo titolo imperiale» che si affiancava a quello di re dei Franchi acquisito nel 768 alla morte del padre Pipino e di re dei Longobardi ottenuto nel 774.
L’elefante era giunto a Porto Venere nel golfo di La Spezia nell’ottobre dell’801, portato da Isacco. Il ruolo di Isacco, scrive Albertoni, «non deve stupire poiché visse in una fase storica nella quale gli ebrei svolgevano un ruolo di fornitori della corte carolingia ed erano sottoposti a una particolare tutela». Fu «in questo contesto di relativa tolleranza che operò Isacco, verosimilmente un mercante che conosceva l’arabo e, quindi, poteva agire come mediatore e traduttore». Assieme a Isacco erano partiti alla volta di Bagdad altri due inviati di Carlo Magno, Lantfrido e Sigismondo. Il viaggio per andare a prendere l’animale era stato lungo, circa quattro anni. I tre partirono da Treviso per attraversare l’Adriatico, giungere a Gerusalemme e di qui alla città del califfo. Nel corso della spedizione i due compagni di viaggio di Isacco morirono e l’ebreo rimase solo a portare a compimento la missione. Al ritorno, Isacco scartò la rotta adriatica percorsa all’andata, giunse a Porto Venere salpando da Tunisi, di qui a Vercelli e poi passando dal Gran San Bernardo ad Aquisgrana spostandosi ad una media, abbastanza sostenuta, di dieci chilometri al giorno.
Abul Abbas restò a fianco di Carlo Magno pochi anni. Morì all’improvviso e nell’810, quattro anni prima del suo «padrone». Il decesso dell’animale avvenne mentre Carlo stava conducendo la sua ultima campagna militare. L’anno precedente era scomparso anche Harun al-Rashid e tra i suoi due figli era divampata una feroce guerra di successione. Nel volgere di cinque anni era così svanito il sogno d’intesa tra i due sovrani, di Aquisgrana e di Bagdad. Quando secoli dopo, il Barbarossa volle aprire il sarcofago di Carlo lo trovò avvolto in un drappo purpureo messo nel sepolcro forse dall’imperatore Ottone III quando nell’anno Mille aveva, anche lui, aperto la tomba. Un drappo decorato con degli elefanti.
Altri tre sovrani medievali possedettero poi un elefante. L’imperatore Federico II, a cui era stato regalato dal sultano d’Egitto al-Kamil nell’ambito delle trattative che avrebbero portato tra il 1228 e il 1229 alla «conquista» di Gerusalemme (senza il ricorso alle armi) in quella che impropriamente è passata alla storia come «sesta crociata». L’elefante di Federico fu usato anche in battaglia, ad esempio a Cortenuova nel 1237, e morì dopo un «onorato e faticoso servizio ventennale» nel 1248. Le sue zanne furono usate per ottenere avorio (come probabilmente era accaduto anche con quelle di Abul Abbas).
Un elefante lo ebbe anche il re di Francia Luigi IX il Santo e gli fu regalato durante la settima crociata (1248-1254) dal sultano d’Egitto Izz al-Din Aybak. Ma Luigi non aveva le ambizioni né di Carlo Magno né di Federico II e alla prima occasione si disfece dell’animale regalandolo al cognato, il re d’Inghilterra Enrico III, che lo tenne in un recinto in compagnia di altre bestie esotiche alla Torre di Londra. Nel Cinquecento si ritagliarono i ruoli di «donatori di elefanti» i re del Portogallo, che avevano importanti basi commerciali in India. Uno fu donato a Papa Leone X (il figlio di Lorenzo de’ Medici), un altro all’arciduca Massimiliano d’Austria (ne ha raccontato la storia José Saramago in Il viaggio dell’elefante edito da Einaudi).
A poco a poco l’elefante di Carlo venne dimenticato. Nel ciclo di affreschi che attorno al 1840 fu commissionato per decorare la sala regia del municipio di Aquisgrana (costruito sulle spoglie dell’antico palazzo di Carlo Magno) il pittore Alfred Rethel non ne lasciò traccia. In compenso Abul Abbas «salvò» Carlo Magno dal desiderio di Adolf Hitler di cercare in lui un illustre progenitore. Negli anni dell’ascesa del dittatore tedesco, racconta Giuseppe Albertoni, tra i nazisti iniziò a serpeggiare il dubbio che Carlo Magno non fosse stato un «vero tedesco». La prova? L’esibizione di quell’elefante. Nel 1935 otto storici scrissero un libro per difendere il germanesimo di re Carlo contro l’attacco della propaganda di regime, che lo aveva liquidato come «una figura antigermanica» perché aveva combattuto contro i Sassoni, ma anche per aver «desiderato» il possesso di quell’animale.
Per altri versi, Abul Abbas, scrive Albertoni, mal si addiceva all’uso pubblico dell’immagine di Carlo Magno; così, per secoli, è rimasto confinato in libri di divulgazione, in quelli che cercavano il dettaglio esotico, nella narrativa per bambini o in qualche titolo che voleva essere evocativo. Anche in tempi recenti, nel corso della «grande riscoperta della storia carolingia» che ha accompagnato i primi anni dell’Unione Europea, Abul Abbas, tranne poche eccezioni, è stato lasciato a margine della grande storia. O è addirittura scomparso. D’altra parte «poteva il padre dell’Europa» essere ricordato accanto a qualcosa che richiamava alla mente il mondo islamico? Naturalmente, mette in chiaro Albertoni, «nessuno volle o seppe ricordare che la sua presenza non era l’esito di un capriccio o della fascinazione suscitata su Carlo Magno da un orientalismo ante litteram». Nessuno volle o seppe ricordare il desiderio del re Carlo di avere accanto a sé un «animale da imperatore»: un elefante, appunto.