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 2020  luglio 14 Martedì calendario

Estratto dell’intervista di Vargas Llosa a Borges

Il premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa nel 1981 andò a casa di Jorge Luis Borges: quel colloquio, finora inedito, esce in Spagna in un libro. Eccone un estratto: tra Dickens, Spinoza e l’allarme sui nazionalismi.

Se dovessi nominare uno scrittore di lingua spagnola la cui opera è destinata a durare nel tempo, per lasciare un’impronta profonda nella letteratura, citerei Jorge Luis Borges. La manciata di libri che ha scritto, sempre brevi, perfetti come un anello, dove si ha l’impressione che non manchi nulla o nulla sia superfluo, hanno avuto e continuano ad avere un’enorme influenza su chi scrive in spagnolo.
Le sue storie fantastiche, che si svolgono nella Pampa, a Buenos Aires, in Cina, a Londra, in qualsiasi luogo della realtà o dell’irrealtà, mostrano la stessa potente immaginazione e la stessa formidabile cultura dei suoi saggi sul tempo, sulla lingua dei vichinghi...
Ma l’erudizione non è mai in Borges una cosa pesante, accademica, è sempre qualcosa di insolito, brillante, divertente, un’avventura dello spirito da cui i lettori escono sempre sorpresi e arricchiti.
L’intervista che Borges ci ha concesso si è svolta nel modesto appartamento del centro di Buenos Aires dove vive, in compagnia di una signora che gli fa anche da guida, dato che Borges ha perso la vista anni fa, e di un gatto angora che ha chiamato Beppo perché, ci ha detto, questo era il nome del gatto di un poeta che ammira: Lord Byron.
Sono rimasto molto colpito dal fatto che nella sua biblioteca non ho trovato i suoi libri, non ce n’è nemmeno uno. Perché?
«Mi prendo molta cura della mia biblioteca. Chi sono io per mettermi accanto a Schopenhauer...».
Mi dica, Borges, c’è una cosa che volevo chiederle da molti anni. Io scrivo romanzi, e mi sono sempre sentito ferito da una sua frase, molto bella ma molto offensiva per un romanziere, che è più o meno la seguente: “È un capriccio che impoverisce il voler scrivere romanzi, voler spiegare in 500 pagine qualcosa che può essere espresso in una sola frase”.
«Sì, ma è un errore, un errore che ho inventato io. Per pigrizia, no? O per incompetenza».
Ma lei è stato un grande lettore di romanzi e un meraviglioso traduttore di romanzi.
«No, no. Ho letto pochissimi romanzi».
Tuttavia, i romanzi compaiono nelle sue opere, sono menzionati o addirittura inventati.
«Sì, ma sono stato sconfitto da Thackeray. Dickens, invece, mi piace molto».
Ha trovato “La fiera della vanità” molto noioso.
«No, non ce l’ho fatta».
Conrad, per esempio, è un autore che lei ammira, non le interessavano i romanzi di Conrad?
«Ma naturalmente, è per questo che le dicevo salvo scarse eccezioni. Ad esempio, Henry James fu un grande scrittore di racconti ma un romanziere... diciamo di un altro calibro».
Citerebbe qualche romanziere tra gli autori che considera più importanti o sono soprattutto poeti e saggisti?
«E scrittori di racconti. Perché non credo che Le mille e una notte sia un romanzo, no? È un’antologia infinita».
Il vantaggio del romanzo è che tutto può essere un romanzo. Penso che sia un genere cannibalico, che inghiotte tutti i generi.
«A proposito di “cannibale”, conosce l’origine della parola? È molto bella.
Caraibi, da cui caríbal , e caníbal ».
Quindi è una parola di origine latinoamericana.
«Be’, senza “latino”. Erano una tribù di indios, i Caribes, una parola indigena, da cui viene cannibale e il Calibano di Shakespeare».
Uno strano contributo dell’America al vocabolario universale. Qual è stato, secondo lei, il miglior contributo nel campo della letteratura?
«Direi il modernismo in generale.
Curiosamente, siamo — non geograficamente — molto più vicini alla Francia degli spagnoli. In Spagna mi resi conto che potevo lodare l’Inghilterra, lodare l’Italia, lodare la Germania, lodare anche il Nordamerica, ma se parlavo della Francia li mettevo a disagio».
Il nazionalismo è una cosa molto difficile da sradicare ovunque.
«Uno dei grandi mali del nostro tempo. E voglio anche dirle che è un male che riguarda sia la destra che la sinistra. È un errore, perché se uno ama una cosa contro un’altra non la ama veramente. Per esempio, se amo l’Inghilterra contro la Francia è un errore, devo amare entrambi i Paesi, nei limiti delle mie possibilità.
Attualmente, pur essendo nipote e pronipote di militari e, più da lontano, di conquistatori, che non mi interessano, sono un pacifista. Credo che ogni guerra sia un crimine.
Inoltre, se ammettiamo le guerre giuste, che certamente ci sono state — la Guerra dei Sei Giorni, per esempio — se ammettiamo una guerra giusta, una sola, questo apre la porta a qualsiasi guerra e non mancheranno mai motivi per giustificarla. Non avevo capito in precedenza che Bertrand Russell e Gandhi avevano ragione ad opporsi alla guerra, e forse ci vuole più coraggio ora per opporsi alla guerra che per difenderla o perfino per parteciparvi».
Su questo sono d’accordo con lei. Le feci un’intervista circa un quarto di secolo fa a Parigi e una delle cose che le chiesi...
«Che tristezza se parliamo di un quarto di secolo...».
...una cosa che le chiesi era cosa pensasse della politica, e sa che cosa mi rispose? “È una delle forme del tedio”.
«Ah, be’, è vero».
È una bella risposta e non so se la ripeterebbe ora: pensa ancora che sia una delle forme del tedio?
«Direi che la parola tedio è un po’ debole. Fastidio, diciamo».
C’è un politico contemporaneo che ammira, che rispetta?
«Non so se si possono ammirare i politici, persone che si dedicano ad annuire, a corrompere, a sorridere, a farsi fotografare e, scusatemi, ad essere popolari...».
Quali tipi umani ammira, Borges? Ricorda qualche avventuriero che avrebbe voluto essere?
«No, non mi piacerebbe essere un’altra persona».
Lei è contento del destino di Borges.
«No, non sono contento, ma so che con un altro destino sarei un’altra persona. E come dice Spinoza, “ogni cosa vuole la solitudine del suo essere”. Insisto per essere Borges, non so perché».
Ricordo una sua frase: “Molte cose ho letto e poche ne ho vissute”, che da un lato è molto bella e dall’altro sembra nostalgica...
«Molto triste. Lo scrissi quando avevo trent’anni e non mi rendevo conto che anche leggere è un modo di vivere».
Vive praticamente come un monaco, la sua casa è molto austera, la sua camera da letto sembra la cella di un trappista.
«Il lusso mi sembra una volgarità».
Che cosa ha significato il denaro per lei, nella sua vita?
«La possibilità di avere libri e di viaggiare».
Quale Paese ha trovato più commovente?
«Non so, direi il Giappone, l’Inghilterra e... l’Islanda, naturalmente, perché sto studiando la lingua nordica, che è la lingua madre dello svedese, del norvegese, del danese e, in parte, anche dell’inglese. Ho edizioni dei classici, opere del XIII secolo».
È una lingua che non si è evoluta per otto secoli.
«Sospetto che la pronuncia sia cambiata. Anche la pronuncia inglese è cambiata molto. Noi diciamo To be or not to be, ma sembra che Shakespeare dicesse ancora, mantenendo le vocali sassoni aperte: Tou be or nat tou be. È molto più sonoro, ed è quasi comico ora».
Borges, questa curiosità o, più che curiosità, questo suo essere affascinato dalle letterature esotiche...
«Non so se esotiche...».
Mi riferisco al suo interesse per la letteratura nordica o anglosassone.
«Be’, quella anglosassone è l’antica letteratura inglese».
...pensa che abbia qualcosa a che fare con...
«Con la nostalgia?».
Con l’Argentina, con il fatto che l’Argentina è un Paese totalmente moderno, quasi senza passato.
«Credo di sì, e che forse una delle nostre ricchezze sia la nostalgia. La nostalgia dell’Europa, soprattutto, che un europeo non può sentire perché un europeo non si sente europeo ma, diciamo, inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, russo...».
— Buenos Aires, giugno 1981 © Mario Vargas Llosa / Worldwide right reserved to Ediciones El País S.L. 2020 Traduzione di Luis E. Moriones