il Giornale, 13 luglio 2020
Intervista a Edoardo Boncinelli
Il caso in fondo fa paura. L’idea che tutto quello che ci circonda non sia stato pensato o scritto da qualcuno può lasciarti un perenne senso di vuoto, di futilità. Non c’è una sceneggiatura e neppure un destino. L’uomo ha cercato risposte nel mito, nella religione, nella filosofia, nei lumi, nella scienza. L’istinto, e per molti la speranza, è di eliminare il caso dal tavolo da gioco. Dio, scriveva Einstein a Max Born, non gioca a dadi. Si parlava di meccanica quantistica. Nessuno conosce le abitudini di Dio, tanto meno se ti viene da pensarci in un’afosa giornata di luglio. Qui la questione non è però il Grande Vecchio, ma fare i conti con il fatto che il caso non lo puoi scacciare da quello che chiamiamo cosmo. Non si può mettere tra parentesi. Sta lì e ti angoscia. Non puoi neppure cavartela con un definiamo caso tutto quello che non riusciamo a capire, perché più l’uomo conosce e più il caso sembra riproporsi cocciuto con forza. Si intromette nella vita, nell’evoluzione, nelle funzioni matematiche che descrivono le grandi leggi dell’universo, nel ballo delle particelle subatomiche, nel principio di indeterminazione, nella lotta di un virus nel cercare casa in un nuovo ospite. Il caso non è un errore e neppure un’anomalia.
Il caso, fa dire Balzac a Napoleone, è il solo sovrano legittimo dell’universo. Non è del tutto vero, ma la sua presenza segna un limite infinito alla possibilità di avere risposte. Il caso aiuta la scienza a non arroccarsi nei dogmi. C’è anche la possibilità che il demiurgo lo abbia messo lì come variabile per dare un po’ di imprevedibilità al grande gioco. Come uno sviluppatore di videogame che lascia agli eventi uno spazio di manovra, di libertà. Questo però non è un problema della ragione, perché da quel punto in poi si aprono domande che non possono avere risposta. È il grande oceano della metafisica.
È di questo che ti ritrovi a chiacchierare con Edoardo Boncinelli, con il timore di affaticarlo o di sembrare troppo sciocco. Boncinelli, da biologo e da fisico, si ritrova da una vita a confrontarsi con il caso. Lo hai già incontrato un paio di volte. Una volta in una piazzetta dove parecchia gente si era radunata per sentirlo parlare di La storia di tutte le storie (Castelvecchi) e La forma universal di questo nodo (Mondadori), un libro che ha scritto con Massimo Arcangeli. Un’altra volta con il suo amico Giulio Giorello a dissertare sul libero arbitrio. I due insieme hanno scritto Lo scimmione intelligente (Rizzoli) e raccontano l’avventura umana, partendo da una frase di Raymond Quenau: «La scimmia, senza sforzo, diventò l’uomo, che un po’ più tardi disgregò l’atomo».
Il caso ci disturba?
«Noi esseri umani diamo quasi per scontato che ogni evento debba avere una causa».
E non è così?
«Nella maggior parte dei casi sì, ma non sempre e non per forza. È capitato che, più di cento anni fa, l’uomo ha messo il naso dentro gli atomi, si è messo a cercare le particelle elementari, e lì non valgono le leggi di Newton, ma spesso regna il caso. Ci tocca sopportare il disagio di accettare questi strani tiri di dadi».
Strani?
«Sorprendenti. Se il mondo fosse come me lo aspettavo, il mondo non ci sarebbe. Quello che io adesso chiamo strano in termini tecnici è che gli atomi e le particelle obbediscono a una forma diversa di fisica, chiamata fisica quantistica o meccanica quantistica. La fisica classica riguarda i tavoli, le sedie, le bottiglie e funziona molto bene finché parliamo di oggetti di una certa dimensione. Fallisce invece completamente quando parliamo di oggetti piccolissimi. È lì che il caso si è presa la scena».
Maledette particelle. Spiazzano.
«Sono quello che sono. Sfuggono alla ricerca di ordine. Non è una cosa che mi stupisce. Ci sono abituato».
Perché?
«I biologi si sono confrontati con il caso prima dei fisici. La teoria dell’evoluzione di Darwin ti dice che il caso è un fattore molto importante».
Fa selezione?
«Ogni tanto il Dna di qualche individuo o di qualche specie cambia. In termini scientifici si dice è mutato. L’ambiente opera una scelta, favorendo alcuni individui, non nel senso di farli sopravvivere, come si crede, ma si permettere loro di lasciare un numero maggiore di discendenti. La chiamiamo selezione naturale. Il problema della parola selezione, però, è che fa sembrare che questa sia un’azione attiva, come se ci fosse qualcuno a selezionare».
E non c’è?
«No, non c’è nessuno che seleziona. L’ambiente, semplicemente, permette a qualche individuo di vivere meglio di altri e di lasciare più discendenti».
Dove altro vede la mano del caso?
«Nella biologia molecolare il caso compare continuamente sotto forma di mutazione. Perché c’è una mutazione? Perché proprio quella? E perché in quel momento?».
Come funziona la mutazione?
«Le mutazioni nel Dna sono dovute a eventi fisici-chimici. Accade che una lettera A starà un po’ storta, per cui quando viene copiata invece che come A viene letta, per esempio, come G e dall’altra parte invece di mettere una T si mette una C. Questa casualità la ritrovi anche nel modo in cui si evolvono le galassie. Il nostro pensiero sta facendo i conti con l’inatteso. Noi dobbiamo rinunciare alla presunzione di Laplace di poter calcolare tutto».
Gli effetti non sono che le conseguenze matematiche di un piccolo numero di leggi immutabili.
«Non sembra che sia cosi. Tutto è pieno di colpi di sorpresa. Questo, naturalmente, non vuol dire scardinare le leggi universali, ma accettare anche l’imponderabile».
Di questi tempi c’è chi chiede alla scienza la Verità. La scienza che prende il posto della religione.
«Una volta un amico mi disse: dove sta scritto che la scienza dice cose vere?»
E lei cosa rispose?
«Che la conoscenza più affidabile è quella scientifica. Non ho detto quella più vera, perché vero non significa nulla. L’uomo, d’altronde, se c’è una cosa che davvero odia è la verità. L’uomo non vuole sapere la verità, ecco perché si è inventato i miti e se li inventa tuttora. La scienza dà indicazioni, che non possono essere complete, ma di cui posso fare tesoro. È, appunto, affidabile».
Il destino non è più di casa.
«È il tema sollevato da Jacques Monod nel 1970 con il saggio Il caso e la necessità. Monod riecheggiava un breve frammento di Democrito che diceva: tutto avviene o per caso o per necessità. La parola necessità in greco era ananke, il fato, il destino, nella Repubblica di Platone la ritroviamo come madre delle moire. Solo che questa ambiguità tra necessità e destino ha creato più di qualche polemica».
La necessità non è destino?
«Monod quando parla di necessità intende quella serie di principi fisici, chimici e biologici che fanno andare avanti la baracca della vita, prima a livello molecolare, poi cellulare e poi dell’organismo. Qui le regole, ancorché statistiche, sono ferree. Con il solo caso non si andrebbe avanti. Il caso regola tante cose, ma non ce la potrebbe mai fare da solo».
Il destino ti fa credere che tutto abbia uno scopo, un fine, un senso. Ci crede?
«Mi ricordo benissimo che quando avevo otto anni mi stavo lavando i denti e pensai che non c’erano ragionamenti in difesa dell’esistenza di un destino. Non ho cambiato idea».
Di cosa ha paura?
«Di nulla».
Neppure del caso?
«Posso aver paura delle cose materiali. Se c’è un fosso meglio evitarlo. Le cose esistenziali non mi spaventano. La paura intellettuale, chiamiamola così, deriva sempre dall’ignoranza».