Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2020
Ma chi credi di conoscere?
Goffe spie che incredibilmente non sono smascherate da esperti controllori. Magistrati che giudicano peggio di quanto non facciano i computer. Un’infrazione stradale minore che finisce in tragedia. Imbroglioni che proseguono indisturbati nei loro intrighi per decenni. Tipico esempio è Bernard Madoff, l’autore del più grande schema Ponzi della storia. Lo schema Ponzi – dal nome di chi l’applicò per primo su vasta scala, un secolo fa a Boston – è il prototipo della fiducia mal riposta: serve a far credere ai risparmiatori che ricevono cospicue rendite da fruttuosi investimenti. In realtà il lestofante si limita a restituire parte dei soldi incautamente affidati. Funziona da più di un secolo, basta che l’imbroglione riesca a costruirsi una buona reputazione per raccogliere clienti sempre nuovi. Investitori navigati hanno continuato a credere in Bernard Madoff, incoraggiati dal fatto che anche altri esperti lo facevano. Così l’imbroglio si è alimentato assumendo proporzioni gigantesche.
Com’è possibile tutto ciò?
Il dilemma dello sconosciuto. Perché è così difficile capire chi non conosciamo. Questo è il titolo italiano dell’ultimo libro di Malcolm Gladwell, giornalista del «New Yorker» e divulgatore noto nel campo delle scienze cognitive. Il titolo originale, Parlare agli sconosciuti: che cosa dovremmo conoscere delle persone che non conosciamo, forse rende meglio il contenuto. Con risultati sperimentali e, soprattutto, con il racconto di casi, Gladwell analizza le cause degli errori che commettiamo nel farci un’idea di chi incontriamo per la prima volta. Per sbagliare meno – suggerisce Gladwell – sarebbe bene approfondire alcune cose e ignorarne altre. In linea di massima, se possibile, sarebbe meglio informarsi sul passato di quella persona, su quello che ha fatto. Dovremmo invece dare meno peso alle prime impressioni che finiscono per guidare i giudizi successivi. Dopo il primo incontro con uno sconosciuto tendiamo a confermare l’idea che ci siamo fatti frettolosamente. La persona dovrebbe restare più a lungo un dilemma. Basta poco, invece, e subito non lo è più. Crediamo di averla «inquadrata». Il «quadrato», però, si rivela poi una figura irregolare e cangiante: chi crediamo conoscere può sorprenderci e coglierci in contropiede. Non solo giudichiamo troppo presto, ma i pre-giudizi si basano spesso su idee correnti, su stereotipi del senso comune. In seguito ai primi incontri, noi tendiamo a incamerare quel che capita in modo che sia coerente con l’impressione iniziale. Il tutto è difficile da smontare perché le storie assorbono come spugne ciò che le conferma e ignorano fatti e indizi potenzialmente contrari.
Esattamente venti anni fa, guidati da Philip Johnson-Laird, ora professore emerito dell’università di Princeton, studiammo come la mente concilia informazioni tra loro incoerenti. Pubblicammo su «Science» un lavoro sulle «illusioni di coerenza», e cioè sui modi sistematici con cui inganniamo noi stessi pur di far quadrare informazioni discordanti. Alla base c’è la presunzione che quello che veniamo a sapere sia vero, ipotesi che diventa infalsificabile se siamo noi i primi a volerci credere.
Pensiamo agli incontri dei tre rappresentanti del governo britannico con Hitler negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Chamberlain, il primo ministro, desiderava interpretare i gesti amichevoli di Hitler – la doppia stretta di mano – come segni di buona fede. Lord Halifax, il ministro degli esteri, educato a Eton e a Oxford e con una lunga carriera politica anche all’estero, aveva sempre avuto a che fare con persone del suo rango e volle credere alla parola di Hitler. L’ambasciatore britannico in Germania aveva più volte visto il cancelliere del Reich e, pur avendo avuto dubbi persino sulla sua sanità mentale, non osò contraddire il parere dei superiori. Winston Churchill non incontrò mai Hitler ma studiò la storia dell’uomo e capì lo stile banditesco. Churchill era curioso, frequentava persone di ogni ceto sociale e professione ed era capace di scovare, dietro apparenze fasulle, la perversa pasta umana di tipi come Hitler. Sapeva che non aveva esitato ad assassinare Ernst Röhm, amico di vecchia data, la sola persona che dava del tu a Hitler.
Quando visitai Blenheim, il palazzo dove era nato Churchill, lessi le raccomandazioni di prudenza nei confronti degli sconosciuti inviate dal padre al figlio. Mi venne in mente il primo giorno di asilo: mio padre dirigeva lo stabilimento in cui lavoravano le persone del posto. La cuoca (beneamata) mi avvertì: «Saranno gentili, non tutti saranno sinceri».
Che cosa c’è dietro l’incauta sopravvalutazione dell’esperienza diretta quando incontriamo sconosciuti? Nella cultura occidentale si tende a credere che ogni persona abbia un carattere, un’identità permanente. Dopo i primi incontri spesso siamo convinti di essere riusciti a cogliere questa essenza immutabile (degli esperimenti sull’essenzialismo psicologico ha parlato Giorgio Vallortigara sul Domenicale del 12 aprile scorso). Purtroppo è un abbaglio.
Ci sono modi per capire se si tende a cadere in tale abbaglio. Immaginate d’aver sventato un crimine chiamando la polizia. Quale spiegazione emerge spontanea: «Strani rumori hanno attirato la mia attenzione» oppure «Sono una persona particolarmente attenta»? Altro esempio: dimentichiamo il compleanno del partner. Spiegazioni possibili: «Ero occupata in altre cose» oppure «Sono una persona senza memoria»? Capacità o difetti permanenti, essenze appunto, oppure circostanze momentanee, favorevoli o sfavorevoli? Nel caso d’insuccessi è più adattivo e sano attribuirli a scenari contingenti (un test completo basato sul contrasto tra questi due tipi di spiegazione è nel mio Felicità).
Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo narra come Tancredi avesse divertito i compagni di cena con un racconto di violenze in un convento. Concetta, innamorata di Tancredi, ascolta la storia. Disgustata e offesa si allontana da Tancredi. Solo da vecchia verrà a sapere che aveva rovinato la sua vita per una sciocchezza, per una frottola inventata in occasione del clima euforico delle facili vittorie contro i borbonici. Una passeggera e irrilevante spacconata era stata tragicamente scambiata per duratura incompatibilità.
Da ultimo la buona notizia. In un lavoro uscito nel giugno 2010 su «Behavioral and Brain Sciences», Ara Norenzayan e altri colleghi dell’Università della British Columbia mostrano come questa tendenza a sottovalutare le circostanze sia un fenomeno delle nostre culture collegato all’educazione ricevuta. La storia di Churchill è la prova che alcuni, pochi, non disdegnano i principi delle scienze cognitive: rispetto e sospetto. Rispetto per fatti e persone, quindi cautela nelle diagnosi. Sospetto per l’affidabilità delle esperienze personali e immediate: a Gladwell piace ribaltare il senso comune con l’aiuto della scienza.