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 2020  luglio 12 Domenica calendario

Salire al trono, che complicazione!

Nel 1989, bicentenario della presa della Bastiglia, Paolo Viola, un valente storico prematuramente scomparso, pubblicò presso Einaudi un libro dal titolo Il trono vuoto. La transizione della sovranità nella Rivoluzione francese, che affrontava l’inquietante problema aperto dalla decapitazione del re. Annichilita la dinastia, la stirpe dei capetingi, violato il secolare principio dell’origine divina del potere regio, reciso dalla ghigliottina il capo che nel rito di incoronazione era stato unto con l’olio santo e investito di una sacralità taumaturgica, sepolto il detentore unico della sovranità, spettava ora ai rivoluzionari il compito di realizzare ciò che avevano promesso, e cioè di trasferire quella sovranità alla nazione tutta. Il che tuttavia era più facile a dirsi che a farsi, anche perché la trasmissione dinastica, come aveva spiegato Rousseau nelContrat social, aveva i suoi vantaggi, era una garanzia di «tranquillità», eliminava potenziali conflitti e guerre civili. Proprio per questo – scriveva – «si è resa la corona ereditaria in alcune famiglie e si è stabilito un ordine di successione che impedisca ogni disputa alla morte del re», nonostante il rischio «di avere per capi dei bambini, dei mostri, degli imbecilli».
Del resto, non era la prima volta che un trono restava vuoto o veniva conteso da diversi pretendenti, sulla base delle più varie ragioni storiche o rivendicazioni dinastiche, ed è su questo problema che indaga l’agile volume di Marcello Verga, che si sofferma sulla crisi danese risolta dalla lex regia del 1665; sulla gloriosa rivoluzione inglese del 1689, quando l’ultimo degli Stuart fu cacciato dal Parlamento e dovette fuggire, dopo aver spezzato i sigilli regi; sulla successione di Pietro il Grande, egli stesso salito al trono attraverso vicende rocambolesche, che dopo aver condannato a morte lo zarevic Aleksej designò erede la moglie Caterina in base al principio che il sovrano aveva il diritto di «nominare chi vuole», per essere poi smentito due anni dopo la sua morte dal riconoscimento del figlio di Aleksej, l’undicenne Pietro II, come legittimo zar di tutte le Russie; la complicata sostituzione della dinastia lorenese a quella medicea in Toscana nel 1737; la successione nel 1715 di Luigi XV di Francia, un bambino di 5 anni, dopo gli oltre 72 anni di regno del bisnonno, il Re Sole, anch’egli salito al trono a cinque anni nel 1643, che avendo visto scomparire uno dopo l’altro ben tre delfini, aveva emanato una legge che legittimava l’ascesa al trono dei figli bastardi e che fu infine abrogata, dopo roventi dibattiti, in base al principio che il re non aveva il potere di modificare la legge salica. L’incoronazione di Luigi XV avvenne all’indomani di una guerra che, pur lasciando esausta la Francia, era riuscita a imporre un Borbone sul trono di Spagna. Fu la prima delle tre guerre di successione scoppiate in Europa nella prima metà del Settecento, dovuta alla morte senza figli dell’ultimo sovrano asburgico, Carlo II, nel 1700, che costò la rinuncia del regno iberico ai suoi possedimenti italiani. Di lì a poco, sullo sfondo di un incessante turbinio di trattative diplomatiche, seguirono la guerra di successione polacca (1733-39), sulla quale l’autore non si sofferma dato il carattere elettivo della corona, e la guerra di successione d’Austria (1740-48), causata da una legge che aveva consentito l’ascesa al trono di una donna, la grande Maria Teresa, e conclusasi con notevoli amputazioni territoriali. 
Non fu solo la carta politica del continente a essere ridisegnata da queste guerre, ma anche il concetto stesso di sovranità e con esso il rapporto tra popolo e re, che vide lo sviluppo di quel germe costituzionale che risiedeva appunto nei diritti di successione. In Francia, per esempio, a differenza dell’Inghilterra, vigeva la legge salica che – insieme con la religione cattolica – costituiva una di quelle che all’inizio del ’500 Claude de Seyssel aveva definito come «lois fondamentales» della grande monarchie dei re cristianissimi, alle quali neanche essi potevano derogare. E così fu per i privilegi (fueros) del regno d’Aragona, per i pacta conventa che avevano fatto della corona polacca una respublica, per il diritto del Parlamento inglese ad approvare le tasse straordinarie. Erano esiti ormai radicati delle diverse storie dei Paesi europei, ai quali tra Cinque e Settecento grandi pensatori come Bodin, Grozio, Althusius, Hobbes, Pufendorf, Locke si sforzarono di dare veste giuridica, contribuendo così a trasformare diritti consuetudinari in diritti costituzionali, volti a dare regole e «tranquillità», come diceva Rousseau, alla vita politica, a impedire il predominio dell’arbitrio e scongiurare la tirannide. Anche in quelle tortuose regole di successione, che cercavano di disegnare il futuro attraverso clausole e codicilli, di imporre rigorose regole dinastiche a una storia i cui continui rivolgimenti non facevano che metterle in discussione, insomma, affondano le radici del passaggio dai re per diritto divino alla sovranità popolare. Napoleone si proclamò nel 1804 imperatore dei francesi e Vittorio Emanuele II nel 1861 re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione. Proprio quelle discussioni, tra l’altro, diedero un contributo decisivo anche alla definizione del concetto di nazione, e quindi di patria, con il suo legittimo sovrano che quei diritti era tenuto a tutelare.
Marcello Verga si muove con sicura competenza e capacità di sintesi in un pulviscolo di vicende politiche di cui tira le fila sul piano della storia generale, chiarendo il nodo «di riflessioni sulla sovranità, sui titolari della sovranità, del dibattito sulla relazione tra un “popolo” e il suo “sovrano”, che hanno segnato fortemente la cultura politica e giuridica europea dalla fine del Cinquecento in avanti» (p. 7). Piuttosto dall’inizio del Cinquecento, direi, nel quadro del tortuoso emergere dei fattori storici che contribuirono alla formazione dello Stato moderno. A destare qualche perplessità, quindi, è una periodizzazione che muove dalla seconda metà del ’600, con l’esclusione di vicende cruciali nella prospettiva del problema affrontato in queste pagine. Mi limito a ricordare, solo per fare qualche esempio, la complicata successione di Carlo V ai suoi sconfinati dominii, e in particolare alla corona di Castiglia, dove fu di fatto esautorata la legittima sovrana, sua madre Giovanna la Pazza; o la scomparsa del re Sebastiano I del Portogallo nella battaglia dell’Alcácer-Quibir in Marocco nel 1578 che, oltre a provocare una crisi dinastica conclusasi due anni dopo con l’acquisizione della corona portoghese da parte di Filippo II di Spagna, darà vita al tenace mito del sebastianismo, del re scomparso ma ancora vivo e destinato a riapparire e tornare sul trono, di cui vari usurpatori e avventurieri cercheranno di appropriarsi; o ancora la contrastata successione al trono di Francia di Enrico IV di Valois, legittimo erede al trono, ma ugonotto, anzi eretico relapso per essere tornato all’eresia dopo una fittizia conversione cattolica, pronto infine a ripeterla poiché – com’è noto – «Parigi val bene una messa»; o infine, e soprattutto, la grande rivoluzione inglese che nel 1649 (un secolo e mezzo prima di Luigi XVI) vide la condanna a morte di Carlo I Stuart, l’«uomo di sangue» che, come recita la sentenza, fu giustiziato sul patibolo «mediante separazione della testa dal corpo». God save the King è però dal 1744 l’inno nazionale inglese.