Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2020
L’odissea editoriale dell’Ulisse
Che anno, quell’anno 1960, quando è possibile tenere finalmente in mano un volume di oltre mille pagine della bellissima Medusa mondadoriana con la prima traduzione italiana dell’ Ulisse di James Joyce! All’epoca non c’erano ancora le classifiche di vendita, ma centomila copie se ne sono andate in breve tempo, in concorrenza con il nuovo romanzo, La noia, di Alberto Moravia, anch’esso fresco di stampa. Da due anni a fianco di Giacomo Debenedetti al Saggiatore, ho il privilegio di leggere in anteprima una sua memorabile recensione della Noia, ma anche di ricevere qualche dritta sul modo di affrontare Joyce, magari partendo da Stefano eroe (l’antecedente del Ritratto dell’artista da giovane) pubblicato da Mondadori nel 1950, nella traduzione di Carlo Linati. (Comasco, come Mario Biondi, Linati era stato il primo traduttore, almeno di alcuni brani, dell’Ulisse per la rivista «Il Convegno» nel 1926).
Sempre nel ’60, alla sera si andava al cinema, a vedere, sempre alla prima naturalmente, film come La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e L’avventura di Michelangelo Antonioni. Quest’ultimo, almeno a Milano, è quello che genera l’indotto più rilevante: presto un dibattito alla Casa della Cultura, officiato da Enzo Paci, sul tema dell’alienazione, ormai marchio di fabbrica antonioniano, ma pure in accezione marxiana. In ambito off, utile comunque per cogliere lo spirito del tempo, Umberto Eco, in veste, non infrequente, di parodista, crea il testo Alienazione, da cantare sulla falsariga di Arrivederci di Umberto Bindi, con le stesse ruffiane inflessioni melodiche del suo interprete cubano, allora molto popolare, Don Marino Barreto Jr. Per corrispondenza cronologica e rilevanza nel mio percorso editoriale, va infine segnalata la pubblicazione di Wahrheit und Methode (Verità e metodo) di Hans-Georg Gadamer, poi tradotto da Gianni Vattimo, testo di riferimento della filosofia ermeneutica.
Ma torniamo all’Ulisse italiano che esce nella traduzione di Giulio De Angelis, con la consulenza di altri anglisti quali Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, a sottolineare la complessità e l’impegno dell’impresa. Come è noto, l’edizione originale era stata pubblicata a Parigi il 2 febbraio 1922, nel quarantesimo compleanno di Joyce, per i tipi della Shakespeare & Company, a cura di Sylvia Beach, e annunciata al mondo di lingua inglese dalla celebre Lettera da Parigi dell’amico e mentore Ezra Pound, pubblicata su The Dial il 6 giugno 1922. E perché trentotto anni di attesa per il lettore italiano? Succede che all’inizio il libro circola quasi clandestinamente, di mano in mano, di quei pochi in grado di affrontarne l’edizione originale. La cerchia dei privilegiati un po’ si allarga quando appare la versione francese di Valery Larbaud, così che se ne può sempre più parlare e scrivere. Le voci che si alzano più forti, contro Joyce, sono quelle di un manipolo di provvisoriamente scervellati giovani fascisti, futuri protagonisti dell’intelligencija di sinistra, come Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Luciano Anceschi, Guido Piovene e, un po’ più grandicello, Curzio Malaparte, voci intrise di esaltazione nazionale, xenofobia, autarchia: sovranisti avanti lettera. Traggo queste informazioni da un racconto o, per meglio dire, un pastiche di Umberto Eco, intitolato Ci mancava anche l’Ulisse, pubblicato sull’«Almanacco del Bibliofilo» (2009) e poi ripreso in Costruire il nemico, ispirato a sua volta dalla lettura di La fortuna di Joyce in Italia (1974) di Giovanni Cianci, che assemblava come un’unica recensione coeva brani di diciassette autori, nominati solo in una nota in calce come in un quiz. Senza scomodare gli illustri autori di cui sopra, vorrei citarne un paio: una perché con intento denigratorio ci riferisce dei sostenitori dell’Ulisse: «...a poco valgono le difese del Joyce dovute alle penne (vendute a chi?) di Corrado Pavolini, Annibale Pastore, Adelchi Baratono, per non dire del Montale, del Benco, del Linati, del Cecchi o del Pannunzio...» e un’altra in sintonia con la proclamazione delle leggi razziali: «Il vero attentato allo spirito della nuova Italia è proprio nella prosa narrativa, dove a cominciare da Italo Svevo, ebreo di tre cotte, ad Alberto Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare nel fondo limaccioso della società figure ripugnanti di uomini che non sono “uomini”, ma esseri abulici, infangati di sensualità bassa e ripugnante, malati fisicamente e moralmente... E i maestri di tutti cotesti narratori sono proprio quei pazzi patologici che si chiamano Marcello Proust e Giacomo Joyce, nomi stranieri e di ebrei sino al midollo delle ossa, e disfattisti sino alla radice dei capelli». (Giuseppe Biondolillo, «L’Unione Sarda», 14 aprile 1939).
Passata la bufera del Ventennio, durante il quale fior di scrittori americani, inglesi e francesi vengono comunque tradotti con l’avallo del Minculpop, talvolta con qualche preventivo accorgimento autocensorio, l’Ulisse continua a segnare il passo. La questione è ora quella della traduzione, non sono intervenute al momento questioni legali, come negli Stati Uniti, dove sono passati quindici anni prima di far cadere le accuse di oscenità. In Irlanda, invece, pur in assenza di qualunque proibizione, l’edizione in lingua inglese viene bloccata in dogana fino al 1960. Carlo Linati, il destinatario naturale, non aveva ritenuto di potersene occupare e nel 1949 era passato a miglior vita. Un anno dopo scompare anche Cesare Pavese, candidato più che attendibile per avere tradotto Il ritratto dell’artista da giovane, nel 1933, e, più recentemente, anche William Faulkner, l’erede più legittimo di Joyce. Fra i traduttori di Faulkner figurano anche Elio Vittorini, Giulio De Angelis e Glauco Cambon, ed è al giovane De Angelis che spetta l’avvio dell’impresa della prima edizione italiana di Ulisse.
Joyce e Faulkner sono autori che ogni editore al mondo vorrebbe pubblicare, difficili da tradurre e, come tutti i classici, richiedono un rinnovo periodico della traduzione. Quella di Mario Biondi per La nave di Teseo è stata per me un bellissimo, inatteso regalo, propiziato forse dalla comune frequentazione del mercato del giovedì del nostro quartiere dove ci si incontra, senza appuntamento, anche con Tullio Pericoli. Loro due discettano sulle offerte del giorno di un elitario banco del pesce, io mi accontento delle primizie ortofrutticole. Nell’inviarmi il file della sua traduzione, Biondi mi informa che si tratta del lavoro di alcuni decenni, inframmezzato alla sua attività di scrittore, di viaggiatore sulle tracce di Marco Polo, traduttore su commissione e, in editoria, collaboratore di Mario Spagnol; nel caso non avesse un’edizione a stampa, intende inserirla gratuitamente in rete. Ho letto subito le prime pagine, fondamentale l’incipit, e il monologo di Molly e avviato immediatamente il lavoro editoriale e redazionale, la grafica di Pierluigi Cerri, anche lui idealmente presente ai colloqui del mercato del giovedì, con Pericoli che ci fornisce un suo ritratto di Joyce per la quarta di copertina. Noto anche per il suo carattere fumantino, che non gli ha sorprendentemente impedito di svolgere a suo tempo pure il lavoro di ufficio stampa, Biondi è stato per noi un interlocutore ideale per la sua competenza a tutto tondo, così che il bel tomo dell’Ulisse arriva in libreria puntuale per il Bloomsday. I critici, tra gli altri Nadia Fusini, Luigi Sampietro e Massimo Bacigalupo, hanno bene espresso il loro assenso al lavoro di Biondi. Non mi resta che segnalare, da lettore per i lettori, una specificità di questa edizione: a) per la prima volta, le indispensabili note del traduttore sono a pie’ di pagina, ad evitare la distrazione della ricerca altrove; b) per i dialoghi, Joyce usava solo la trattina lunga di inizio, lasciando al lettore il compito di individuarne la conclusione non sempre così evidente: ora, con l’uso delle virgolette continentali “a sergente” in apertura e chiusura della battuta tutto è più chiaro.