Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 13 Lunedì calendario

Ritratto di Patti Smith

In una serata di fine inverno sul finire degli Anni 90, fui invitato a moderare un incontro con Patti Smith presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University. Non ero un grande conoscitore del suo lavoro, e l’incontro mi preoccupava, anche perché l’avevo incontrata solo un paio di volte, e le nostre conversazioni si erano limitate a quello che gli americani chiamano small talk, le chiacchiere superficiali che si fanno generalmente in occasioni pubbliche. Pochi giorni prima dell’evento tentai di tirarmi indietro con una scusa, ma Stefano Albertini, Direttore della Casa Italiana, mi spiegò che il tema dell’incontro non sarebbe stato il rock, ma Pier Paolo Pasolini, per cui Patti Smith provava una vera e propria venerazione. «È interessata soprattutto al rapporto con la religione», mi spiegò, e questo non mi tranquillizzò affatto: sono a mia volta un sincero ammiratore di Pasolini, ma il tema si faceva ben più complicato e profondo.
L’auditorium della Casa Italiana era gremito, e ricordo l’applauso scrosciante che la accolse e il suo sorriso, con mia sorpresa intimidito da tanto calore. Poi, nel momento stesso in cui iniziammo a parlare, rimasi colpito da un altro dato: una straordinaria umiltà mista a una sincera curiosità. Avevo preparato alcune clip dal Vangelo secondo Matteo e La ricotta, a mio avviso i suoi film più belli insieme ad Accattone, e poi i versi dalla raccolta Poesia in forma di rosa in cui Pasolini si definisce «una forza del passato» che proviene «dalle pale d’altare». Patti conosceva bene le scene, ma le guardò commossa poi, dopo la poesia, si interrogò pubblicamente su cosa avrebbe potuto dire lei al posto di Pasolini: «Da dove provengo? - chiese a se stessa e al pubblico - cosa siamo in realtà noi americani?». A quel punto ci raccontò che era cresciuta come Testimone di Geova, che era stata quindi affascinata dal buddhismo tibetano, e si era avvicinata «progressivamente al cattolicesimo, di cui apprezzo la carnalità». Non fui l’unico a ricordare che un verso di una sua canzone recitava «Cristo è morto per i peccati di qualcuno ma non per i miei». Conquistò il pubblico nel giro di pochi minuti, sia quello più lontano dalla sensibilità religiosa che quello venuto nella speranza di ascoltarla cantare, e risultò evidente a tutti la sua grandissima generosità.
Da allora abbiamo cominciato a frequentarci sporadicamente, fin quando, pochi anni fa, la invitai a partecipare alle Conversazioni a Capri. Il tema scelto quell’anno erano i sette vizi capitali, e io, con un po’ di malizia, le affidai la lussuria. Parlò con una purezza e una profondità disarmanti e poi ci regalò un finale a sorpresa: «Mi sento fortunata a trovarmi in un posto così bello - disse - e sento il bisogno di esprimere la mia gratitudine». Imbracciò la chitarra e intonò Because the night, con il pubblico che si mise a cantare insieme a lei, in delirio per quell’evento inaspettato. In quei giorni ebbi occasione di entrare un po’ in confidenza, e lei mi raccontò quanto soffrisse ancora per la morte del fratello Todd, e poi, a poche settimane di distanza, del marito Fred, cui ha dedicato una delle sue canzoni più famose, Frederick. «Si chiamava anche lui Smith di cognome - spiegò con un sorriso pieno di malinconia - e nel periodo in cui ero considerata un’icona femminista molti dicevano che l’avevo sposato perché non avrei dovuto cambiare cognome: io non smentivo». Mi resi conto in quell’occasione che la purezza che le ha consentito di superare indenne le esperienze più dolorose va di passo di pari passo con un grande senso dell’umorismo. 
In quella occasione mi parlò anche di Jeanne Hébuterne, la compagna di Amedeo Modigliani che si suicidò, incinta, due giorni prima della morte del pittore, spiegandomi che il suo album Waves era ispirato a lei, perfino al suo ultimo tragico gesto. Amava gli artisti che trionfavano con l’arte ma erano traditi dalla vita: pensava e a Robert Mapplethorpe di cui era stata intima amica e anche amante, ma quel giorno mi parlò di Arthur Rimbaud. «Da giovane lo consideravo il mio fidanzato - disse - e pochi artisti ancora adesso mi emozionano in egual misura». Pochi mesi prima aveva dato alle stampe Just Kids, il bellissimo memoir con cui raccontava le sue esperienze con Mapplethorpe in una New York che riproponeva cent’anni dopo le atmosfere della bohème parigina. Il libro aveva vinto il National Book Award e lei era la prima ad esserne sorpresa: appariva restia a farsi definire una scrittrice, ma all’amico fotografo, che definiva «l’artista della mia vita», aveva dedicato il libro The Coral Sea da cui poi aveva anche tratto un disco. «Un artista è una persona che entra in competizione con Dio» mi spiegò e non c’era nulla di provocatorio o blasfemo, ma anzi, il compimento di qualcosa cui gli artisti sono chiamati: «Guai a disperdere i propri talenti» mi disse, e non le sfuggiva certo il riferimento evangelico. 
Sia sul piano umano che su quello artistico non è stato meno importante il rapporto con Sam Shepard, insieme al quale scrisse Cowboy Mouth: fu lui a incoraggiarla a scrivere poesie, e anni dopo, quando fu aggredito da un male in incurabile, lei gli rimase vicino fino alla fine. Ha conosciuto il dolore, l’ingiustizia e la miseria, Patti, ma è fiera di aver vissuto ogni esperienza fino in fondo, e non rinnega nulla del suo passato: il padre Grant era un operaio, e la madre Beverly aspirava a diventare una cantante jazz, ma passò la vita a fare la cameriera in ristoranti di second’ordine. È nata a Chicago ma è cresciuta vicino a Philadelphia e poi nel New Jersey, prima di trasferirsi a New York, la città mitica dov’è conosciuto artisti squattrinati come lei che poi sarebbero diventati leggendari, come Allen Ginsberg, Lou Reed e Bob Dylan. Non è un caso che quest’ultimo abbia chiesto a Patti di cantare quando venne insignito del premio Nobel, e lei, travolta dall’emozione, dimenticò un paio di versi di Hard Rain, canzone meravigliosa e apocalittica che aveva cantato centinaia di volte. 
Conobbe in quello stesso periodo anche Bruce Springsteen, con il quale ha scritto Because the night, e che a volte accompagna a sorpresa nei concerti: specie quando canta con lui hai l’impressione che la musica sia insieme una necessità e una gioia. A volte le pesa essere un’icona, ma più spesso è gratificata dall’attenzione di personalità quali Terrence Malick, che la chiamò a partecipare a Song to Song nel ruolo di se stessa. È stata certamente inattesa l’onorificenza di Cavaliere nell’Ordre des Arts et des Letters ricevuta in Francia: ne è lusingata ma in lei è ancora forte lo spirito della controcultura che l’ha portata ad appoggiare Ralph Nader nell’elezione in cui George W Bush prevalse per un soffio su Al Gore. «Dentro di me - mi spiegò una volta - c’è qualcosa che ancora mi lega profondamente all’esperienza punk rock: la libertà di creare, di avere successo, di non averlo, di essere quello che sei. Insomma di essere libera». Ha superato da poco i 70 anni, e non ha mai smesso di concepire l’arte e la vita stessa come una missione: «Da giovane sentivo l’obbligo di svegliare la gente… Mi sembrava che la poesia fosse addormentata e anche il rock’n’roll fosse addormentato». Ha un animo troppo puro per cadere nello stereotipo dell’artista maledetto o in quello del genio e sregolatezza: l’arte per lei si realizza solo con il duro lavoro quotidiano, umile e costante. È una regola che applica anche nelle relazioni umane, perfino nell’amore che cerca in ogni momento e in ogni cosa. Sa perfettamente che in ogni viaggio la ricerca è importante quanto l’arrivo, e sorride quando dice: «Non lasciare mai andar via quella tristezza bruciante che si chiama desiderio».