La Stampa, 13 luglio 2020
La cultura violenta di Matteo Messina Denaro
«U Siccu» è un nomignolo che, in dialetto siciliano, descrive un uomo esile e indifeso. Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, lo ha scelto come titolo del libro che ha scritto su Matteo Messina Denaro, capo della mafia trapanese e oggi il latitante più ricercato d’Europa (U Siccu, l’ultimo capo dei capi, in libreria da domani per Rizzoli, pp. 256, € 18). Una scelta, pensiamo, adatta a evidenziare l’enorme contraddizione tra l’aspetto fisico del boss e la sua reale portata e pericolosità. Perché a leggere il racconto meticoloso di Abbate (come sempre documentato) ci giunge il ritratto di un uomo che sarà pure «siccu», ma senza rinunciare all’esercizio violento del potere mafioso, politico e imprenditoriale, attraverso il ricatto e la sopraffazione. Uno «stile» che può mantenere grazie alla propria origine criminale, alla «cultura» di cui è imbevuta la sua esistenza e, soprattutto, alla rete di amicizie e complicità che trova nella borghesia compromessa, nelle istituzioni infedeli e nei «segreti» di cui continua a essere custode.
Scrive Lirio Abbate: «Messina Denaro è un "corleonese", forse l’ultimo esponente di spicco di questa fazione. È stato uomo di fiducia di Salvatore Riina ed è un sanguinario assassino... Ed è il custode dei segreti del capo dei capi, del suo archivio e dell’eredità dei legami con quella zona grigia che ha dialogato e fatto affari con "Totò u curtu" fino al 1993. Legami e contatti oggi ancora vivi, ancora preziosi per Cosa nostra». Il riferimento va alla cattura di Riina e al "salvataggio" delle carte custodite nella cassaforte del suo covo di via Bernini, a Palermo, svuotata da un manipolo di uomini d’onore che consegnarono tutto a lui, a Matteo, che così diventava l’unico erede e depositario del potere di Riina. E durava da anni questo sodalizio fra Corleone e Castelvetrano, patria di «U Siccu». Da quando don Ciccio, papà di Matteo, aveva affidato il proprio pargolo al boss di Corleone, anche per agevolarne la carriera criminale.
Abbeverato a tanta scuola, è quasi naturale che il giovanotto sia diventato addirittura il prosecutore della strategia stragista di Riina, Bagarella, Brusca e Graviano e il gran regista del ricatto portato avanti direttamente contro lo Stato nel tentativo di far modificare le leggi antimafia e specialmente il tanto odiato 41 bis, cioè il carcere duro. È lui, Matteo, l’organizzatore e l’esecutore della strategia stragista di Cosa nostra. D’altra parte, la violenza è il suo marchio di fabbrica, sin dalla giovinezza. «Per Matteo» spiega Lirio Abbate «la lotta allo Stato, che considera una guerra giusta, da combattere con ogni mezzo, il tritolo, la corruzione e l’omicidio, è cominciata fin dall’infanzia. A quattordici anni già sparava. A diciotto uccideva. A 31 metteva le bombe al Nord. Questo è quello che sappiamo di lui...». Già, quel Matteo dall’aria impacciata e dallo sguardo appena strabico, elegante nelle sue camicie firmate, nei suoi Rolex e nelle sue Porsche. Lo stesso che nel 1992 pedinava il giudice Falcone, nell’ipotesi che lo si dovesse uccidere a Roma. Poi Riina cambiò idea e furono le stragi, prima a Palermo, poi Roma, Firenze e Milano. Qualcosa di simile a un tentativo di golpe che, nel 1993, costrinse l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, a convocare d’urgenza il Consiglio Supremo di difesa.
Nel racconto intrigante di Abbate si coglie l’essenza del personaggio: contraddittorio tra essere e apparire, furbo, glaciale come un animale a sangue freddo, egocentrico, amante della bella vita e delle donne. Il volume offre anche un documento molto interessante e inedito: l’unico interrogatorio firmato da un giovane Matteo nel 1988. Una vera e propria rarità, per un ricercato di cui non si conoscono impronte digitali, né tantomeno il timbro della voce. In quelle risposte ai poliziotti si intravede già il freddo calcolatore, uno che parla solo per precostituirsi un alibi, in relazione all’omicidio di una persona che era stata con lui qualche giorno prima. Il resto è cronaca di una vita avventurosa: una figlia quasi segreta, una serie di amori, la corrispondenza con le amanti, gli scambi di «pizzini» con Bernardo Provenzano, la ricostruzione della sua tela del potere. Fino alle relazioni antiche con il sen. D’Alì di Forza Italia (che è stato sottosegretario all’Interno) e quelle più recenti con Vito Nicastri e Paolo Arata, portatori di interessi della Lega di Matteo Salvini intorno al grande business dell’energia alternativa (eolico). Affari che coincidono temporalmente con lo «sdoganamento» al Sud della Lega e con la svolta «unitaria» del partito (ex) antimeridionalista. Chissà cosa direbbe oggi Matteo, se si riuscisse a interrogarlo.