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 2020  luglio 13 Lunedì calendario

1993, la misteriosa ragazza delle stragi

Le stragi mafiose del 1992 di Capaci e via D’Amelio (Falcone e Borsellino) e quelle compiute tra maggio e luglio dell’anno successivo, «nel Continente» (Roma, Firenze e Milano) sono state pensate ed eseguite da una diabolica sinergia composta da rudi manovali corleonesi supportati da sofisticati «geni» del depistaggio e abili manipolatori anche al servizio delle forze di sicurezza. È una realtà ormai difficile da contestare, come risulta evidente dai processi che hanno scandagliato tutte le più oscure tragedie nazionali dell’ultimo mezzo secolo. Questa «semplice verità», per dirla alla Sciascia, viene periodicamente confermata da numerose attività di varie Procure, ma non solo. Anche le commissioni parlamentari che indagano sui buchi neri delle diverse inchieste, man mano che procedono, scoprono ammanchi, omissioni e stranezze ancora inspiegabili.
È il caso di uno degli ultimi approfondimenti, disposti dalla commissione Antimafia del presidente Morra, sugli attentati mafiosi di Roma, Firenze e Milano. L’aspetto più interessante riguarda uno spunto investigativo, relativo alla strage dei Georgofili (Firenze, 27 maggio 1993), forse sottovalutato o addirittura nascosto, visto che si parla di una testimonianza raccolta nell’immediatezza dei fatti sia dalla polizia sia dai carabinieri e abbandonata nel nulla: e questo, a dispetto dell’importanza che avrebbe potuto rivestire nell’indirizzo dell’inchiesta e nella visione d’insieme della cosiddetta strategia stragista della mafia, quando tentò di condizionare con le bombe l’azione di contrasto dello Stato, ormai allertato dalle gravi perdite subìte con la fine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
C’è, dunque, un teste che nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 si è imbattuto nel commando che si apprestava a collocare l’esplosivo assassino (5 morti e 48 feriti) in via dei Georgofili, a ridosso della Galleria degli Uffizi. Si tratta di un uomo che ha assistito agli strani movimenti di due giovanotti che «non parlavano italiano» (nel senso che si esprimevano in un dialetto a lui sconosciuto). A suo tempo il teste dichiarò di aver sentito i due litigare mentre tentavano di aprire a spallate un portone per recuperare qualche cosa che era rimasta dentro, sembra una busta che non si è mai saputo cosa contenesse. I due portavano per i manici una grossa borsa, «abbastanza pesante», prelevata da un’auto in sosta e successivamente depositata sul cassone di un Fiorino Fiat bianco: l’auto usata per l’attentato.
Ma c’è di più. A coordinare il lavoro dei due, «uno snello, alto coi capelli chiari», l’altro «col viso rotondo e di colorito olivastro», c’è una giovane donna, «elegante» come una hostess (giacca e tailleur), coi capelli bruni a caschetto, giunta sul luogo (via dei Bardi, a Firenze) a bordo di un’auto grigio metallizzato, «forse una Mercedes», targata Rovigo. La donna, con accento fiorentino, sollecita i due con un perentorio: «Ci vogliamo muovere o no?». 
Il testimone racconta tutto ciò che ha visto e sentito sia alla polizia sia a un maresciallo dei carabinieri con cui è possibile intrattenesse un qualche rapporto precedente. E collabora alla realizzazione di un photofit della ragazza che, stranamente, non è mai stato diffuso, a differenza di altri che riguardano i sospettati di sesso maschile. Eppure una presenza femminile era stata riscontrata (cambia il caschetto, una volta è biondo, un’altra nero) anche in via Fauro, a Roma, in occasione dell’attentato subito da Maurizio Costanzo e dalla moglie, Maria De Filippi. Forse si sarebbe dovuto dare molta più importanza alla ragazza col caschetto, visto che una donna (praticamente identica) verrà notata sulla scena dell’attentato di via Palestro a Milano, il 27 luglio successivo. Comunque, il testimone viene abbandonato al proprio destino e mai più sentito, anzi viene consigliato di non parlare con nessuno. Nessun magistrato lo interrogherà mai più. Almeno fino al 2019, quando la Commissione antimafia si reca a Firenze per chiedergli un approfondimento, affidato alla consulenza del giudice Gianfranco Donadio. Un evento che sorprende parecchio il testimone e rivela un abbassamento della memoria così giustificata: «Ragazzi, dal 1993 sono passati 26 anni».
Eppure qualcosa in più viene fuori. Per esempio che, insieme con la busta che i due giovanotti di via dei Bardi volevano recuperare, c’era anche una cartina di Firenze con due luoghi evidenziati da cerchi segnati con inchiostro rosso. L’uomo dice di averlo detto, a suo tempo, agli investigatori che lo avevano interrogato, ma gli fu consigliato di non parlarne con nessuno.
E la ragazza? Il testimone nicchia, non ricorda. Poi, messo alle strette, rientra in possesso della memoria e conferma tutto. Una serie di particolari che consentono di mettere in relazione la ragazza di via Fauro e dei Gergofili con la «biondina» di via Palestro, a Milano, che portava al collo una cordicella di caucciù con una pietra nera fissata su una piastra metallica. Non sono stati fatti grandi approfondimenti nel tentativo di identificarla. Esiste un vecchio appunto del 1993, scritto dal servizio segreto civile, che riferisce «voc» circa la presenza sulla scena di via Palestro di una donna conosciuta come «Cipollina» (per via del caschetto) utilizzata «operativamente» da una «organizzazione parallela». Insomma una che fa il lavoro sporco. Non sono indizi di poco conto perché - considerata la presenza femminile, inimmaginabile per la mafia - contribuiscono a tenere in piedi la tesi che le stragi di mafia siano state, in qualche modo, eterodirette, indirizzate, da apparati riservati. Sarà per questo che la Commissione antimafia si appresta a proseguire, a «rivedere» le carte che, nel tempo, hanno riguardato l’attività segreta di nuclei paramilitari come la Gladio. A cominciare da quei nomi di «patrioti» che non figurano negli elenchi ufficiali.