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 2020  luglio 13 Lunedì calendario

Il piano Usa per il petrolio libico

Demilitarizzare la mezzaluna petrolifera libica. È questo il piano sul quale gli Stati Uniti puntano per riportare alla normalità la produzione di oro nero nel Paese nordafricano, dopo la chiusura dei pozzi decisa il 18 gennaio da Khalifa Haftar. Ed è una delle ipotesi al vaglio del Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al Sarraj, riferiscono fonti di Tripoli. La spartizione del bazar energetico nazionale è la partita su cui, col progressivo congelamento del conflitto, si stanno confrontando gli azionisti di riferimento del dossier libico, ovvero la Turchia, schierata con Sarraj, ed Egitto, Emirati e Russia, gli sponsor del generale Haftar. E da cui l’Italia non può rimanere esclusa dati gli imprescindibili interessi nazionali rappresentati, soprattutto, dall’Eni. La partita vede inoltre il ritrovato attivismo di Washington - dopo il prolungato allontanamento dal dossier - dove è maturata l’idea di dar vita a una zona demilitarizzata nella fascia di territorio a sud dell’area costiera tra Sirte e Bengasi. Creare una zona franca per tutelare il patrimonio di tutti i libici è anche un modo, letta dal prisma americano, per tenere a freno la lunga mano di Mosca sul tesoro libico, dopo l’incursione dei mercenari della società russa Wagner nel campo di Shahara. Un messaggio intimidatorio rivolto alla Noc, secondo il suo presidente Mustafa Sanalla, visto che l’autorità petrolifera nazionale è preposta a gestire i proventi del greggio. 
La partita è complessa, come dimostra la repentina chiusura dei pozzi dopo che il 10 luglio, la Noc, aveva annunciato la revoca del blocco sulle esportazioni di greggio, permettendo così una prima, parziale ripresa della produzione. La doccia fredda è giunta 48 ore dopo con Ahmed al Mismari, braccio destro di Haftar: «L’apertura dei porti per il trasporto di greggio è limitata a una quantità già immagazzinata, i giacimenti rimarranno chiusi fino a che le richieste del popolo libico non verranno soddisfatte». Un atto di «ingerenza esterna», affermano con rammarico gli Usa e con conseguenze pesanti: rispetto agli 1,2 milioni di barili prodotti a regimi regolari nel Paese, si è arrivati a produrne un minimo di 80 mila, con una perdita netta di due miliardi di dollari al mese ovvero 24 miliardi di dollari a fronte di un bilancio libico che nel 2019 è stato di 56,3 miliardi di dollari, a cui si sommano i crolli dell’indotto.
«Di fatto non c’è l’accordo sulla distribuzione dei proventi», spiega Daniele Ruvinetti esperto di dinamiche libiche e consulente strategico di società internazionali. «Da quello che trapela i ricavi dovrebbero essere messi su un conto terzo bloccato per almeno quattro mesi per un periodo di almeno quattro mesi. Durante il quale, le parti dovrebbero trovare un accordo sulla distribuzione dei proventi fra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan». Un obiettivo complesso: Haftar non vuole lasciare la gestione dei proventi alla Noc perché è allineata alla capitale e Tripoli non è d’accordo nel dare soldi al generale per finanziare le sue derive belliche. Mentre la Turchia pretende prima di ogni cessate il fuoco il ritiro del generale da Sirte e Al Jufra. In questo senso sarà essenziale l’opera di seduzione degli Usa nei confronti degli Emirati, sponsor più agguerriti dell’uomo forte della Cirenaica, un passaggio cruciale nel cui successo l’amministrazione Trump ripone la fiducia per dar vita alla nuova zona demilitarizzata nel conteso deserto libico.