Corriere della Sera, 13 luglio 2020
Tassoni e il suo editor
L’esempio massimo di scrittore che si affidava agli amici per revisioni e consigli è Alessandro Manzoni: «Molte fronti – scrisse Giovanni Macchia – si chinarono sul manoscritto del romanzo». E citava non solo il sodale francese Claude Fauriel e il vicinissimo Ermes Visconti, ma anche monsignor Luigi Tosi, uomo di fede e di pensiero più che di lettere. Un caso simile, necessariamente meno indagato, è quello del modenese Alessandro Tassoni (1565-1635), autore de La secchia rapita, il poema eroicomico che si fece beffe della tradizione epica: basti pensare che racconta di una feroce guerra tra la ghibellina Modena e la guelfa Bologna (siamo nella metà del XIII secolo) scatenata dalla volontà di appropriarsi di un secchio di legno. Nonostante gli ostacoli opposti dall’Inquisizione «per essere scritta in dispregio de’ bolognesi e de’ Papi», La secchia ebbe un successo clamoroso, anche perché raccontava il presente, alludendo in modo comico-grottesco a famiglie e figure contemporanee pur mettendo in scena con molta libertà personaggi e fatti storici di epoche diverse.
Ebbene, quel tipo, che il critico Attilio Momigliano definì «uomo di rispettabile statura» ma anche «ingegno balzano e leggero», possiamo ritrovarlo adesso affaccendato nel pieno del suo tormentatissimo laboratorio grazie al ritrovamento della corrispondenza autografa con il canonico padovano Albertino Barisoni. Il Barisoni, incaricato dall’autore di rivedere il testo da sottoporre al tribunale vaticano, fu il suo interlocutore per oltre un decennio, dal 27 giugno 1615 al 12 dicembre 1626. Un importante motivo dello scambio è la speranza di pubblicare a Padova. Lo testimoniano le 74 lettere (quelle del quinquennio 1620-25 sono andate perse), contenute nel fascicolo appena riscoperto, messo insieme e rilegato all’inizio del Settecento: un quaderno di epistole noto finora soltanto attraverso delle copie di copie e che torna alla luce, grazie a un anonimo privato che l’ha acquisito probabilmente da un proprietario padovano e che vorrebbe metterlo all’asta. Dell’epistolario originale si erano smarrite le tracce da quando ne diede notizia il letterato veneziano Apostolo Zeno, il quale ne fece una copia che nel 1730 spedì all’amico Ludovico Antonio Muratori: da questa copia, perduta, derivano altre due copie da cui derivano a loro volta le edizioni moderne delle lettere tassoniane.
Detto ciò, non sarà difficile cogliere l’importanza del ritrovamento. Nella descrizione tecnica del documento, sono gli studiosi secentisti Maria Cristina Cabani e Andrea Lazzarini (rispettivamente dell’Università di Pisa e dell’Università di Modena e Reggio) a mettere in evidenza l’eccezionalità del manoscritto. Quel che emerge è il molto speciale tipo di collaborazione tra Tassoni e Barisoni, che verte essenzialmente su questioni editoriali relative ai Pensieri diversi e alla Secchia rapita, in particolare su problemi legati alla composizione e revisione del poema. Ai Pensieri il Tassoni aveva affidato le proprie speranze di gloria futura, trattandosi di una raccolta erudita di argomenti vari, elaborata in molti anni, con una edizione a stampa del 1608 ripudiata dall’autore (che accusò l’editore di avergliela estorta), una seconda edizione del 1612 e una terza del 1620. Pur tuttavia il nome di Tassoni è rimasto legato alla straordinaria e immediata fortuna della Secchia, che doveva accompagnare i Pensieri: minimizzato dallo stesso autore quale produzione giovanile, il poema ebbe una notevole circolazione manoscritta ben prima di vedere la luce a stampa nel 1622 a Parigi. La sua faticosa elaborazione e le peripezie editoriali sono testimoniate dalle lettere al Barisoni. Dove appare incredibile la delega di fiducia al canonico, che suggerisce cambiamenti, tagli, aggiunte e qualche volta prende l’iniziativa in proprio, autorizzato dall’autore: «Se troverà cosa che non le piaccia la prego di avisarmela, che subito la muterò, perché io non son punto tenace di opinione», scrive Tassoni il 26 dicembre 1615. E ancora, un mese dopo, in modo più diretto: «Per V.S. faccia così: muti essa quello che vuole». Altre volte, viceversa, lo stesso Tassoni si erge a difensore contrariato di piccolezze, come quando si trova di fronte alle eccessive varianti del nome di Valirone (uno degli alter ego di Barisoni nel poema): «Né mi faccia rappezzare quel luogo che io ni avrei gusto e faremmo peggio». Altrove oppone strenua resistenza al cospetto di richieste dettate da opportunismo ideologico: laddove, per esempio, lo si invita ad aggiungere una dedica encomiastica al principe Tommaso di Savoia e qualche ottava in lode di Venezia.
Insomma, un vero editing moderno, con correzioni e aggiustamenti che tengono conto di ragioni interne al testo, linguistiche, strutturali e lessicali, con consultazioni su «carratello», «billi billi», «peparola»; sulle forme fiorentine e le forme dialettali (e particolarmente padovane), come per l’ampia e gustosa riflessione a proposito de «la dolce», un animale così definito da Barisoni e ignoto a Tassoni, che alla fine, dopo aver ipotizzato tra il serio e il faceto trattarsi di «una pecora o un cane o un lupo o una volpe o una gatta», si decide per un levriero. Piovono i dubbi ortografici: «proprii» o «propri»? «cavaliere» o «cavagliere»? «de la» o «della»? «foco» o «fuoco»? eccetera. Anche se, alla fine, Tassoni concede: «V.S. faccia come Le piace di più».
Come si è visto, si aggiungono questioni esterne più delicate, relative a opportunità politiche e religiose. Su queste ultime preoccupazioni nei confronti della censura ma anche dei «baciatavolozze» (epiteto rivolto allo stesso Barisoni) e degli «idioti» che guarderanno solo alla «superficie delle burle», non mancano note esplicite. Come questa che allude a una condizione di timore e di pericolo certamente parecchio diffusa negli scrittori di quell’epoca: «Quanto alla stampa del poema, bisogna consultar bene quello che si ha da fare acciò che non diano disgusto e incorriamo in pericolo. Starò aspettando i luoghi signati e monsignore e io vedremo se vi sarà altro di pericoloso quanto alle genti descritte; ma dubito che quando saremo alla falce del grano non resti il loglio e si levino le spiche».
L’aspetto più insolito è che, essendo il Barisoni/Barisone un personaggio del poema, al canonico sfugge qualche protesta per il modo in cui viene rappresentato. Ciò accade per esempio a proposito di un comico duello con Sprangone, un avversario volgare non all’altezza del rivale: come si deduce da una lettera del 23 gennaio 1616, il Tassoni promette di aggiungere un’ottava in cui porre rimedio all’offesa secondo un preciso disegno, ma vista l’esigenza di esprimere il concetto in dialetto, prega il canonico di redigere quei versi e di rimandarglieli. Sicché i ruoli dell’autore e del revisore arrivano qua e là a capovolgersi.
La discussione avanza tra questioni serie e intervalli leggeri: sul primo versante stanno le mille informazioni chieste sull’araldica padovana, sulla toponomastica, sull’onomastica, per assicurarsi il massimo di correttezza documentaria per poter disporre del massimo di «licenza di fingere» per divertimento ma anche per aggirare «quei teologi da uva secca» che azionano le «tenaglie del padre inquisitore».
Il risultato è che quella «stralunata poesia», quel «capriccio spropositato fatto per burlare i poeti moderni» vivrà una vicenda editoriale penosa, che dal gennaio 1616 procederà tra parecchi rifiuti fino alla pubblicazione del 1622 presso l’editore parigino Toussant Dubray e successivamente, dopo i diversi ostacoli posti dagli «ipocriti arciscrupolosi» delle gerarchie ecclesiastiche, in Italia nel 1624.