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 2020  luglio 13 Lunedì calendario

Perché Generali ha pagato un prezzo così alto per Cattolica

Generali ha annunciato l’acquisto del 24,4% di Cattolica, sottoscrivendo un aumento di capitale riservato da 300 milioni, previa conversione da cooperativa in Spa, più, pro quota, l’ulteriore aumento di 200 milioni. Per il 24,4% di Cattolica, Generali paga dunque 350 milioni, valutando pertanto 1,43 miliardi il 100% della società. In questo modo le attribuisce un valore implicito pre-aumento di 934 milioni. Poiché prima dell’annuncio Cattolica valeva in Borsa 602 milioni, Generali paga dunque un premio teorico implicito di circa il 55%. Così, all’annuncio, Cattolica è schizzata in alto, portando la capitalizzazione vicino al valore implicito nell’offerta.
Pagare un premio così elevato per non avere il controllo è inusuale. Ancora di più se si considera che Cattolica non apporta a Generali prodotti innovativi, servizi, o professionalità: anzi, l’accordo prevede che sia Generali a offrire servizi di asset management, riassicurazione, salute e business online a Cattolica. Sembra più una partnership commerciale che un’acquisizione, con tanto di premio. Cattolica non apre nuovi mercati a Generali, avendo solo clienti italiani, per di più con oltre il 70% dei premi dal ramo Vita, dalle prospettive non certo brillanti vista la scarsa redditività degli attivi a fronte delle polizze per via dello scenario dei tassi negativi o risibili.
Cattolica, rimanendo cooperativa e con una governance in crisi dopo il poco chiaro defenestramento dell’amministratore delegato appena incaricato del rilancio della compagnia, non avrebbe avuto molte possibilità di raccogliere 500 milioni quando ne capitalizzava 600, specie in queste condizioni di mercato. La conversione in Spa sarebbe stata inevitabile. Generali poteva aspettare che Cattolica lanciasse l’aumento, molto probabilmente a sconto, sottoscriverne più del 30% con i 350 milioni che adesso sborsa, acquisirne la quota di controllo, lanciare l’Opa obbligatoria, toglierla dal listino, riorganizzarla, fonderla e incassare le sinergie, come ha fatto con Ina, Toro o Alleanza. Così, invece, paga un premio per una partecipazione rilevante ma minoritaria, quindi nell’incapacità di incidere sulla governance e imporre una rapida ristrutturazione.
Di Generali negli ultimi giorni si è parlato anche a proposito della richiesta a Mediobanca di distribuire ai soci come dividendo la partecipazione nell’assicurazione. Non capisco il valore della proposta per gli azionisti di Mediobanca (usando logiche di mercato) perché la società di fatto si priverebbe di una partecipazione rilevante per il controllo, senza però incassarne il premio. Per capirlo basta immaginare quanto incasserebbe Mediobanca se mettesse all’asta quella quota. Questo non significa che le risorse inglobate nella partecipazione non potrebbero essere impiegate dalla banca in modo più redditizio. Ma da questo punto di vista il dividendo sarebbe la soluzione peggiore, anche perché ridurrebbe il valore di Mediobanca a poco più di 3 miliardi, di cui una parte rilevante sarebbe costituito dal credito al consumo (Compass), non certo sinergico con le altre attività. Con la stessa logica allora si dovrebbe proporre anche lo spin off e distribuzione ai soci di Compass. Insensato. Altro discorso sarebbe il break up di Mediobanca, per incassare i premi di controllo delle tante sue attività. Ma questo, nessuno lo chiede.
Il dividendo Generali non sarebbe neanche nell’interesse dell’azionista di controllo in pectore, Del Vecchio. È presumibile infatti che voglia la maggioranza relativa in Mediobanca proprio per poter usare la partecipazione del 13% in Generali al fine di esercitare il controllo indiretto sull’assicurazione. Altrimenti si troverebbe ad aver speso circa 1,2 miliardi per ricevere con il dividendo straordinario il 2,6% di Generali, che sul mercato poteva comperare con 500 milioni, oltre al 20% di una media banca italiana. Non mi pare proprio un grande affare.