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 2020  luglio 13 Lunedì calendario

Intervista a Renato Pozzetto per i suoi 80 anni

Mentre riassume 80 anni (li compie domani) di successi e risate, Renato Pozzetto si blocca: «Mi aspetta un momento?». Poi torna: «Scusi, sa, ma ho i tecnici che mi stanno lavorando in casa, sentivamo uno strano odore. Nella caldaia hanno trovato sette-otto lucertole. Oh però morte, eh?». Questo è Pozzetto, anche nella vita: il surreale che si nasconde nel reale, caldaie incluse. L’attore vive quasi sempre sul Lago Maggiore, «ho aperto la Locanda Pozzetto, si mangia bene e c’è una gran vista». Ma non si è ritirato: a giorni inizierà le riprese di Lei mi parla ancora di Pupi Avati, dall’autobiografia di Giuseppe Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio. «Sarò proprio Giuseppe, bel ruolo. Certo che un figlio come Vittorio... ma magari a casa è diverso, chissà».

A 80 anni bisogna però chiederle dei rimpianti.
«Uno: mia moglie Brunella, morta nel 2009 dopo 42 anni di nozze felicissime. Mi manca ancora, anche se ho fantastici figli e nipotini. Nel lavoro qualcosa di buono ho fatto: è già iniziata la sequela delle telefonate di auguri».
Da raccontare ce n’è. A cominciare dal sodalizio artistico con Cochi Ponzoni.
«Nato all’alba della vita. Eravamo bambini durante la Seconda Guerra Mondiale, quando fummo sfollati a Gemonio, nel Varesotto. Iniziammo a giocare lì, poi a Milano, e ogni estate sul lago. Per riempire il vuoto di certe giornate ci mettemmo a far musica, chitarra e armonica. Fino a che scattò il primo incontro. La nostra fortuna è aver fatto grandi incontri».
Chi fu?
«Piero Manzoni, quello della Merda d’artista . A inizio Sessanta iniziò a portarci con lui nei locali, il bar Jamaica e l’osteria L’Oca d’oro a Porta Romana: il padrone, ex boxeur, ci chiedeva canti di libertà e lavoro, li facevamo anche nei circoli operai, esibendoci sul biliardo perché non c’era spazio. Altro incontro, i grandissimi Velia e Tinin Mantegazza. Aprirono una galleria d’ arte notturna, La muffola: serate di chitarra, vino, cibo con Bianciardi, Jannacci, Fo, Gaber. Poi aprirono un cabaret, il Cab64, ci spostammo lì».
Con una comicità unica, surreale, stralunata, fulminante. Qualcosa mai visto prima e poco visto dopo. Come nacque?
«Diciamo per infusione. Stando accanto a gente così, gag e canzoni nascevano spontanee, poi noi le portavamo in scena. Abbiamo attinto da un gruppo di intellettuali che ci aspettava e che noi aspettavamo. Non solo famosi, penso ai clienti del bar Gattullo, forse l’unico luogo di allora che esiste ancora».
Parliamone.
«Lì c’era e c’è una clientela con questo umorismo. Ci inventammo “l’ufficio facce”: bocciavamo e promuovevamo chi entrava, solo guardandolo. Capivamo se era interista, più fighetto, o milanista, più popolare e vero. Io sono milanista, ovvio. Il giorno del derby per soffrire meno fingevamo di non andarci. Una gara a chi inventava la palla più grande, la comunione di un cugino, l’anniversario di un lutto... Invece in tasca avevamo il biglietto di San Siro».
Derby dovrebbe dirle qualcosa.
«Il luogo che ha inventato il cabaret contemporaneo. La gestione artistica fu data a Jannacci, chiamò me e Cochi, Boldi, Andreasi, Lauzi, Toffolo. Ci chiamò “gruppo motore”, dovevamo trainare il locale in tutti i sensi: anche luci e cori. Grazie agli autori tv Terzoli e Vaime ci trovammo in Rai a Quelli della domenica . Una puntata, poi 6, poi 24, il successo in tv, pochi anni ma intensi: Il poeta e il contadino, La gallina, La canzone intelligente».
Fino a “Canzonissima” e “E la vita e la vita”.
«Una canzone che pochi hanno capito. Disincantata, allegra. Ma quando diciamo che “la vita l’è bela, basta avere l’umbrela che ti ripara la testa”, alludiamo al fatto che è facile far carriera se hai chi ti protegge. Sa, il 68 mica era lontano. Il nostro umorismo ha sempre due chiavi, una più semplice e una più sociale. Se uno capisce solo il senso letterale ride, se arriva a quello nascosto ride di più. Una comicità che si è persa».
Poi la coppia prende strade diverse, Cochi il teatro, lei il cinema: negli anni Ottanta una gioiosa macchina da gag e incassi.
«Ho fatto 63 film, pure troppi, ma i produttori insistevano e i soldi fanno piacere. In ognuno portavo un po’ del mio umorismo, una gag... Ho fatto anche Sono fotogenico, Da grande, Il ragazzo di campagna ».
Si aspettava che questo diventasse un classico?
«No. Ogni volta che passa in tv un dirigente di emittente mi ringrazia perché è l’ascolto più alto. E un gruppo di ragazzi ogni anno lo celebra a Carbonara Ticina, sono stato con loro ad aspettare il treno che passa, come nel film».
Nel 2000 la reunion con Cochi.
«Un certo effetto rivederci sul palco invecchiati a far cose di 30 anni prima, ma con lo stesso piacere di cenare di notte in un ristorante sempre diverso».
Abbiamo citato molte volte Jannacci. Che ci dice di lui?
«Ha dato a me e Cochi un metodo di lavoro, di creazione. Io l’avevo anche come medico. Una volta mi fece un’iniezione e se ne andò lasciandomi natiche all’aria».
Quanto alle sue natiche, c’è poi l’aneddoto con Edwige Fenech.
«Giravamo La patata bollente di Steno. In una scena io ed Edwige proviamo a fare sesso in una vasca con la schiuma. Viene dato lo stop.
La Fenech esce, l’acqua scende e...
beh, si capisce che non ero restato indifferente. Un elettricista mi fa: “A Pozze’, guadagnerai qualche lira ma fai una vitaccia”. Io invece per fortuna ho fatto una vita bela bela».