la Repubblica, 13 luglio 2020
La strategia di Erdogan su Santa Sofia
La religione c’entra poco o niente sul caso Santa Sofia. Recep Tayyip Erdogan è uomo di grande fiuto e intuizioni fulminee. Capace, come ha fatto all’inizio della sua avventura politica, di rivoltare socialmente il Paese, portando al potere l’Anatolia al posto delle regioni costiere. E poi di dominarlo con fermezza, non esitando a usare la repressione. Cinico, spregiudicato, astuto. In Turchia chi lo apprezza dice che è politicamente superiore a tutti i leader d’Europa. Non governerebbe, altrimenti, da ormai quasi vent’anni.
Che sia anche un uomo pio, non vi è dubbio. Le fotografie degli esordi lo immortalano giovane, scalzo, a fianco di Necmettin Erbakan, il fondatore di svariati partiti radicali islamici (tutti chiusi a forza quando i militari laici contavano qualcosa), e nei quali l’imberbe ma fedelissimo Tayyip si fece le ossa. Dopo quattro mesi in prigione per avere recitato in pubblico un salmo del poeta Ziya Golkalp («le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati»), Erdogan capì la lezione e fondò una compagine moderata, il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), di vaga ispirazione religiosa. Ottenne un successo strepitoso alle elezioni del 2002. E da sindaco di Istanbul fu proiettato al governo di Ankara. La fede? Sì. Ma il resto era politique politicienne, come la storia dell’Akp dimostra: attenzione all’edilizia, allo sviluppo economico, agli affari.
Oggi l’intuizione di Erdogan su Santa Sofia ha una forte connotazione strumentale. La conversione da museo a moschea è il pilastro di una strategia capace di diffondersi su più direzioni. All’interno, da consumato leader, il capo dello Stato galvanizza il proprio elettorato conservatore. Compattandolo con i nazionalisti (fra cui frange dei vecchi Lupi grigi), con i quali ha stretto un’alleanza di destra. All’esterno, da presidente della Repubblica, ma vero fautore della politica internazionale, ottiene consenso nel composito mondo musulmano, sapendo che nella sfera sunnita è in atto una partita formidabile per la predominanza. Da tempo la Turchia, alleata del Qatar che la sostiene con finanziamenti copiosi, è in rotta di collisione con Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto. Un confronto aspro, soprattutto con il Cairo, trasferitosi adesso in mare, nel Mediterraneo orientale. Dove le fregate di Ankara dominano, avendo stretto un patto militare e commerciale di sfruttamento di gas e petrolio con il governo di Tripoli che stanno salvando dagli attacchi dei ribelli della Cirenaica. Tutto questo mentre gli ufficiali della Marina prendono campo ad Ankara, considerati le nuove guide della politica estera, affiancando i generali dell’Esercito già impegnati su tre fronti: nel Sudest dell’Anatolia contro i ribelli del Pkk, in Siria contro i guerriglieri curdi del Pyd, e in Libia contro il generale Haftar. Le forze di terra restano fondamentali, ma Erdogan ha scoperto il mare. E gli ammiragli. Ed è qui che, oltre l’Egeo, verso la Somalia, che il desiderio di conquista neo-ottomano soddisfa le sue esigenze imperiali. Non è una strategia priva di rischi. Ma Erdogan è uno straordinario giocatore, uno che ha vinto quasi sempre le sue sfide. E sa che persino i suoi alleati più forti, gli Stati Uniti e la Russia, difficilmente lo fermerebbero. Nella Nato la Turchia è un membro imprescindibile. Con Mosca sono in atto piani di spartizione sia della Siria che della Libia.
Ora Ankara si difende dalle accuse sul non rispetto delle fedi altrui, contrattaccando. Ieri l’agenzia di stampa semiufficiale Anadolu pubblicava un colorato grafico dal titolo “La Turchia può vantare luoghi di culto per religioni diverse cinque volte in più rispetto all’Occidente”. Asserendo che con i «180.854 cristiani e 20 mila ebrei, i non musulmani costituiscono circa lo 0,4% della popolazione, con 1 luogo di culto ogni 461 fedeli». Ma osservatori occidentali a Istanbul bollano la mappa parlando di «nuova narrativa ufficiale», nella quale «non è chiaro dove si trovino nel Paese i membri di quelle comunità religiose i cui luoghi di culto appaiono così numerosi». Sul caso Santa Sofia la religione è solo lo sfondo. Ma la sua riconversione è una grande vittoria per il Sultano. Un passo quasi impossibile da ribaltare.