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 2020  luglio 12 Domenica calendario

Quegli educatissimi detenuti americani

Può la filosofia della storia avere a che fare con il sistema carcerario? Certamente sì, secondo Alexis de Tocqueville, il famoso autore del saggio La democrazia in America che nell’800 divenne ben presto un best seller e che ancor oggi costituisce un classico imprescindibile per chi si accosta allo studio del pensiero politico. Assieme all’amico Gustave de Beaumont, Tocqueville nel 1830 sottopose al governo francese il progetto di un viaggio negli Stati Uniti e in Canada per studiare sul campo il funzionamento delle prigioni in quei Paesi. I due giovani operavano come magistrati a Versailles e a quel tempo la situazione dei penitenziari in Francia era assolutamente allarmante, soprattutto per i casi di recidiva. Negli Stati Uniti invece tutto sembrava funzionare alla perfezione e le voci su un nuovo ed efficace sistema erano giunte sino in Europa. Ne aveva scritto anche il duca di La Rochefoucauld alla fine del Settecento, colpito positivamente da quanto aveva visto in Pennsylvania: lì era nato il concetto di prigione moderna, precisamente a Walnut Street, dove si sperimentavano per la prima volta metodi innovativi, con i detenuti rinchiusi in celle individuali cosicché il contatto con gli altri, sia verbale che visivo, era ridotto al minimo. La reclusione poi comportava per tutti un lavoro manuale, che li teneva molto impegnati. Una sorta di tetrapharmakos stava alla base della vita delle carceri americane: isolamento totale di notte e lavoro solo in parte comune di giorno; inoltre, istruzione e formazione per far sì che, una volta scontata la pena, i carcerati fossero recuperati alla società. E qui ritorna il concetto di filosofia della storia, cui Tocqueville era molto legato come si sarebbe visto nella sua opera più famosa. Il processo di civilizzazione nell’Occidente moderno, oltre che benessere e ricchezza, aveva recato con sé un aumento della criminalità; l’industrializzazione poi, con i suoi cicli di espansione e crisi, comportava in certe fasi della storia un aumento della disoccupazione e quindi della propensione al vagabondaggio e al furto da parte di tanti che venivano estromessi dal mondo del lavoro. Come rimediare? NelMémoire inviato al Ministero della giustizia nel 1830, redatto al fine di ottenere l’autorizzazione al viaggio in America, Tocqueville e Beaumont elencavano fra le cause il basso tasso di alfabetizzazione delle classi povere.
Il governo avrebbe dovuto pertanto predisporre misure preventive per evitare il crimine, come la creazione di nuovi posti di lavoro e la promozione di un’istruzione pubblica rivolta in particolare ai non abbienti. Anche la mancanza di un sistema penitenziario adeguato, che favorisse una riforma morale dei condannati, era un impedimento alla realizzazione di una società armoniosa. La Francia invece pareva aver rinunciato a qualsiasi ambizione rieducativa. Il Guardasigilli accolse la proposta e nell’aprile del 1831 i due poterono partire, restando in America circa un anno, visitando i principali istituti carcerari ma al tempo stesso osservando l’evoluzione della società statunitense tutta rispetto a quella europea. Ne sarebbero scaturiti, alcuni anni più tardi, il romanzo Marie, ou l’esclavage au Etats-Unis di Beaumont e il saggio De la démocratie en Amerique di Tocqueville, entrambi pubblicati nel 1835. Di quest’ultimo uscirà un secondo volume nel 1840.
Il racconto dell’incontro con il sistema carcerario nordamericano è descritto con finezza e precisione da Francesco Gallino, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino, nel libro Tocqueville, il carcere, la democrazia, appena pubblicato dall’editrice il Mulino (pagine 262, euro 24). Sia nell’introduzione che nei vari capitoli del volume l’autore mette in chiaro lo scopo primario della spedizione, ben argomentato in un passo del Mémoire: «Quella garanzia che il terrore non fornisce più, deve fornirla il miglioramento morale dei detenuti. Bisogna che l’omicida a cui si risparmia la vita non diventi in prigione una bestia feroce costantemente pronta a minacciare l’esistenza dei suoi guardiani, o la sicurezza della società, se mai riuscisse a rompere le proprie catene». Nelle carceri francesi invece «nessun pensiero morale presiede alla disciplina interiore che vi è esercitata». Occorre perciò dare vita a un sistema alternativo, animato da intenti pedagogici e capace di agire attivamente sui carcerati. È quanto Tocqueville e Beaumont vanno a cercare in America, ma le loro impressioni sono contrastanti. Il viaggio comincia da Sing Sing, allora il più imponente penitenziario americano. Essi restano impressionati dall’atteggiamento mite dei prigionieri, indotto però dall’estremo rigore con cui è imposto a tutti il silenzio e dalla minaccia costante di severissime pene corporali. Tant’è vero che i due rimangono increduli per il fatto che 22 guardie riescono a tenere a bada 900 reclusi. È l’apatia totale di questi ultimi, indotta sin dal primo giorno in cui sono entrati in carcere, a funzionare da freno alla rivolta, nonostante eseguano lavori all’aperto, muniti di attrezzi che potrebbero facilmente trasformarsi in armi, in gruppi anche numerosi. Eppure, nessuna ribellione si verifica.
Ai magistrati francesi l’esperimento pare eccessivo e pericoloso da applicare in patria: quello che i loro connazionali ritengono come «il sistema più dolce del mondo» in realtà è fondato sull’arbitrio assoluto, del direttore e dei guardiani, sempre pronti a colpire usando la frusta. Molto meglio il sistema che vige a Auburn, sempre nello stato di New York, il più celebre degli istituti americani e prototipo del modello fondato sull’isolamento individuale e sul lavoro comune, sempre svolto in silenzio assoluto e sotto la minaccia della punizione corporale immediata. Essi parlano a lungo col direttore, Elam Lynds, che esprime loro «la convinzione che un gran numero di ex detenuti non ricadano in recidiva e diventino persino dei cittadini utili avendo appreso in prigione un mestiere e preso l’abitudine costante del lavoro».
È questa secondo Tocqueville e Beaumont la vera innovazione che consente che i prigionieri non ricadano nel crimine come accade perlopiù in Europa. Assieme al silenzio e all’isolamento, è il poter svolgere un’attività e il tenersi costantemente impegnati, magari anche imparando un mestiere, a fungere da stimolo morale. A Auburn poi, a differenza di Sing Sing, c’è un controllo perenne, anche attraverso gallerie di sorveglianza ignote ai detenuti, dei laboratori artigianali in cui si svolge il lavoro. Ma i metodi più efficaci sono messi in atto a Cherry Hill, il penitenziario di Philadelphia: celle spaziose con wc e cortiletto individuale e lavoro artigianale offerto solo in caso di buona condotta, con la minaccia di sottrazione in caso di infrazioni alla disciplina. Tutti si adattano volentieri e ambiscono a poter lavorare: la conversione morale del detenuto si verifica nella maggior parte dei casi. Resta il fatto che i due studiosi francesi, nei loro resoconti e nelle loro lettere, finiscono per farsi promotori di un sistema detentivo capace di annientare il libero arbitrio, esattamente il contrario di quanto vedono verificarsi nella società americana, dove la maggioranza dei cittadini liberi esprime a pieno diritto il proprio pensiero e partecipa attivamente alla vita comune della città in cui abita. Unica eccezione riscontrata è la maison de refuge di Boston, riservata ai minori, dove vige un dialogo costante con i reclusi che possono persino eleggere dei loro rappresentanti. Quasi una piccola democrazia assembleare che essi apprezzano, ma non si sentono di privilegiare come modello per i penitenziari destinati ai criminali adulti. Se l’analisi sociologica è azzeccatissima, non così pare dunque per le conclusioni. Ben più acutamente Tocqueville avrebbe saputo cogliere, in La democrazia in America, alcuni fenomeni della società di massa come l’industria culturale e il conformismo, e pure i conflitti fra bianchi e neri, e fra bianchi e nativi americani.