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 2020  luglio 12 Domenica calendario

Il giallo lungo trent’anni del fascicolo 1101

Iniziamo da qui, un fascicolo scomparso, un dossier diventato ipotetico. Il fatidico fascicolo 1101. Ouverture più che degna per un giallo. Soprattutto perché il fascicolo è sparito non dalle cantine soggette alla secolare e invadente golosità dei topi di qualche cimmerio municipio paesano. È scomparso dai luminosissimi archivi del ministero di Grazia e Giustizia. Nientemeno. E non riguarda l’anagrafe o una patente agricola. Per carità: gli infortuni amministrativi non sono mai innocui. Ma qui l’anima morta burocratica è collegata al concorso per la leva dei magistrati. Insomma ciò che deve figliare i pretoriani della garanzia di giustizia per i sudditi. Dovrebbe essere una casa di vetro, il concorso, trasparentissimo. Invece si svela un mondo di ombre, omissioni, perfino reati, difficile, impenetrabile dagli estranei (ovvero i sudditi), denso di grandi scambi, traffici. Insofferente a censure e indagini e all’altro giudizio che degli eguali (che da noi non ha mai funzionato). Insomma: estremamente inquietante. 
È il 1992: alla procura di Milano da febbraio, giorno 17, tiene banco un altro dossier. Intestazione: Chiesa Mario, arrestato. Le magnificenze di Mani pulite dunque. Breve dissolvenza. A Roma a maggio, giorno 21, hotel Ergife, lo slogan lombardo non sembra produrre neppure fiacchi stimoli: nella faccenda dell’esame per uditori giudiziari le mani infatti sono tutt’altro che pulite, sono macchiatissime da infingarde furberie. In modo così plateale e malaccorto da sfiorare l’impudenza: firme false di magistrati segretari assenti, due minuti di attenzione per elaborato, segni di riconoscimento lasciati come tracce di elefante, scarabocchi da somari del diritto promossi a testi di esegesi giuridica, pura scenografia di un deliberato e disonesto inganno. Nello spegnimento di ogni regola i promossi erano già promossi prima ancora di consegnare. 
I «figli di»
Gli esaminatori dovrebbero aver particolare riguardo a chi si presenta come «figlio di nessuno». Non sempre emerge il migliore ma almeno c’è la certezza che si opera con giustizia. Quel sinedrio di magistrati invece prestò molta attenzione a chi era appunto «figlio di qualcuno», ovvero parente, stretto o periferico, di altro magistrato. La lettura delle biografie dei promossi pare la genealogia delle cariche dell’antico Regime, quando i posti si compravano nei secoli per la famiglia. La toga sembra trasmettersi non per concorso ma per cromosomi. 
Ora qualcosa si muove. Due componenti laici del Consiglio superiore della magistratura, seppure in preda ai marosi del caso Palamara (o forse proprio la burrasca ha dato coraggio nello scrutare le magagne), hanno chiesto che il Csm apra una pratica presso la prima commissione «al fine di effettuare approfondita istruttoria». 
Inghiottito il crudo sapore burocratico-leguleio, forse ci siamo: si vuol lumeggiare i fenomenali e irregolari meandri che arrovellano quel concorso. Dopo ventotto anni: tempi lontani ma già assai torbidi, altro che Palamara. Ma in Italia certe piaghe, anche giudiziarie e amministrative, si sa, guariscono solo con il calendario dei secoli. 
Allora l’elaborato 1101. Lo suggeriamo alla possibile commissione di inchiesta, sarà come imboccare una autostrada. Riepiloga, evidenzia esemplifica; leggere i verbali della sparizione è come passar l’aratro, spunta terra fertilissima di illegittimità. Prendiamo alla larga. Il verbale scomparso, l’unico, non è un tema qualunque: perché è quello del candidato più encomiabile, miete osanna, diciassette nella prova di diritto civile, diciotto in quella di penale e sedici in diritto amministrativo.
Viene voglia di leggerli quei tre succinti capolavori di dottrina. Ma non si può. Un candidato bocciato, Pierpaolo Berardi, oggi industrioso agonista forense, spezzando una consuetudine di rassegnato fatalismo, convinto della validità dei propri elaborati, voleva farlo, adocchiare i compiti dei promossi e i giudizi della commissione. Gliene dava diritto la legge. Legge virtuosa, da innalzare agli altari, quella sulla trasparenza degli atti amministrativi, sembra uscita da un vigoroso abbraccio tra Solone e Licurgo.
Il mistero dell’archivio
Scopre e ottiene venga certificato in sentenza il cumulo di irregolarità. Fa chiasso questo irriducibile ricorrente, il sistema gli oppone l’ostruzionismo, la faida amministrativa e corporativa. Salvo in un caso: il 1101 appunto. Qui l’anamnesi taglia senza appello le serie casuali della verifica. Sparito. Lo comunica il direttore generale del ministero, cautelandosi in modo cronologico: è sparito prima che io entrassi in carica. Amen. 
Il ministro dell’epoca, Flick, ordina si investighi su quel tableau trafficone. L’ultimo ad avere maneggiato il fascicolo è… uno dei segretari del concorso sgangherato. È andato all’archivio del ministero e ha chiesto di prelevarlo con vaghe motivazioni. Il responsabile dell’archivio, un ispettore di polizia penitenziaria, ricorda sommessamente al magistrato che la procedura prevede verbali con nome e firma e ovviamente una replica alla riconsegna. Il magistrato ignora, una rapida consultazione dice non si perda tempo, e se ne va con il fascicolo come fosse roba sua. È l’ultimo a vederlo. Il 1101 sparisce nella catastrofe del buio. 
L’ispettore, ammaestrato da secoli di scaricabarile burocratico, appunta nome e ora della operazione imperfetta. Non si sa mai. Come dargli torto in una simile giungla?
Tutto qui? Non vi basta? L’inchiesta non è certo svolta da torchiatori implacabili, nessuno incalza il segretario; il promosso poi chiamato in causa, molto cautelativamente per carità, è già magistrato, sulla «movimentazione del fascicolo» parla fumosamente di una richiesta per diventare collaboratore giudiziario della Federazione gioco calcio. Emerge anche un appunto per il «signor capo di Gabinetto del ministero» che vuole sapere cosa opporre a quel contraddittore tignoso che ammonticchia in Tar e procure ricorsi e denunce. 
La data c’è: 8 giugno 1996. Il nome del magistrato che lo ha redatto negando che ci siano irregolarità no. Giusta precauzione l’esser così anonimo e discreto. Dopo anni e altre vittorie giudiziarie Berardi ottiene che gli sia dato il nome: è il cugino del candidato 1101, magistrato fuori ruolo addetto al ministero della Giustizia. Quel concorso era proprio un affare di famiglia per lui: aveva due parenti candidati, e promossi, cugino e fratello. Patologico non vi pare?
Un predestinato il 1101. In delizioso sgomento scopriamo che attorno a lui, che con brillante carriera è diventato tra l’altro presidente del tribunale che si occupa dei reati dei ministri, si ingrossa una confortevole folla di toghe consanguinee. Il padre è alto magistrato, la madre pure, e poi i fratelli e i nipoti. Si potrebbe tener giustizia in tinello, come ai tempi di Omero.
Lotta contro il sistema 
È evidente il rifiuto ostinato di porre rimedio a quelle irregolarità. Il chiericato giudiziario non tollera passi a vuoto, riconoscimenti di errore, visto che è lui stesso a controllarsi. A costo di negare l’evidenza. Quali sarebbero le conseguenze del riconoscimento della illegittimità? Fino al 2015 si affermava con disinvolta e spiccia giurisprudenza che l’atto, ovvero la sentenza, heghelianamente assolve perfino la illegittimità di chi l’ha compiuto. Ma in quell’anno la Corte costituzionale, di fronte al caso di funzionari dell’Agenzia delle entrate promossi senza concorso, ha stabilito che gli atti sono nulli. Nel caso del concorso dunque anni di storia giudiziaria da riscrivere, una soap-opera di sentenze cancellate: si ballava sul cratere di un vulcano. Quindici giorni fa la Corte ha fatto marcia indietro: il celebrante ha un peccato originale ma il sacramento della giustizia è valido.