La Lettura, 11 luglio 2020
I cleptocrati di Putin
Qual è la natura del regime di Vladimir Putin? Una cleptocrazia che si è impadronita delle risorse della Russia e le impiega per destabilizzare l’Occidente, una cricca di agenti segreti pronta a tutto pur di perpetuare il proprio potere: è il quadro che emerge da quello che è probabilmente il libro definitivo sulla Russia contemporanea, scritto dall’inglese Catherine Belton, per anni corrispondente da Mosca del «Financial Times». Putin’s People (Gli uomini di Putin), che arriverà a settembre in Italia, è una lettura affascinante e raggelante, indispensabile per capire chi si ha veramente di fronte.
Un periodo cruciale per comprendere Vladimir Putin è quello da lui trascorso a Dresda negli anni Ottanta, nell’allora Germania comunista, come agente del Kgb.
«Siamo tutti modellati dalle nostre prime esperienze: e questo vale particolarmente per Putin. Lui è molto versato nelle operazioni segrete: le abitudini che apprendi da giovane ufficiale del Kgb sono difficili da dimenticare. Lui e i suoi alleati erano allora coinvolti nel contrabbando di tecnologia, ma è anche interessante vedere come lui e i suoi alleati avessero cominciato a fare preparativi per un eventuale collasso del comunismo: vedevano già le crepe. A quell’epoca gli agenti segreti dell’Est cominciarono a trasferire fondi verso l’Occidente attraverso aziende di comodo: è inconcepibile che nel suo ruolo Putin non sapesse cosa stava accadendo».
Infatti i siloviki («uomini della forza»), rappresentanti dei servizi segreti e dell’esercito, negli anni del tramonto dell’Urss lavorarono per mettere al sicuro soldi e capacità di influenza.
«Loro capivano che l’economia sovietica non funzionava: per questo si ingegnavano a metter su aziende di comodo. Sapevano che dovevano avere un network operativo e fondi a disposizione che consentissero di continuare a operare nel caso di un crollo del regime. In effetti proprio una parte dei servizi segreti spingeva per una riforma dell’Urss verso un’economia di mercato: alcuni di loro divennero poi i principali finanziatori del regime di Putin. Il Kgb organizzò un grande cover-up dopo il collasso dell’Urss per impedire che si scoprisse dov’erano finiti tutti i soldi del partito».
Anche gli anni di San Pietroburgo, quando Putin fu il braccio destro dell’allora sindaco Sobchak, furono cruciali: compreso l’intreccio fra il Kgb e la mafia.
«Putin lavorava allora alla costruzione di un terminale petrolifero a San Pietroburgo e finì coinvolto nella guerra della mafia locale per il petrolio: ma invece di mandare le forze dell’ordine, decise di stringere un accordo tramite intermediari che lavoravano all’intersezione fra servizi segreti e crimine organizzato, che consentirono agli uomini di Putin di acquisire il monopolio dell’export di petrolio. Presero una decisione consapevole, quella di lavorare assieme al crimine organizzato. Erano abituati a farlo, era una tradizione del Kgb che risaliva agli anni Settanta e Ottanta. Ma negli anni Novanta non sapevi più chi comandava veramente: la mafia o il Kgb».
L’arrivo di Putin al vertice della Russia, alla fine degli anni Novanta, sembra quasi la trama di un golpe del Kgb.
«Furono capaci di organizzare un ritorno al potere, anche se definirlo un golpe è un po’ troppo forte: probabilmente non sarebbero riusciti a farlo senza il crac finanziario del 1998, che aveva molto indebolito l’allora presidente russo Boris Eltsin. Dunque, nel mezzo dello scandalo dei fondi neri che la coinvolse alla fine del 1999, la famiglia Eltsin scelse come premier quell’ufficiale dei servizi segreti che sembrava più liberale e progressista: quello che poi si è rivelato il più spietato di tutti. Ciò che nessuno sapeva all’epoca è che Putin era amico dell’informatore che produsse le carte dello scandalo Eltsin: costui aveva lavorato con Putin a San Pietroburgo negli anni Novanta, lui sapeva del flusso di danaro dalla famiglia Eltsin e delle loro carte di credito. Il clan Eltsin era spaventato e per questo diede il potere a questo ufficiale che pensavano liberale. Putin fu molto abile a mostrare una lealtà di facciata».
Dunque lo scandalo che travolse Eltsin venne orchestrato dal Kgb.
«Sì, penso di sì. L’informatore faceva riferimento un gruppo di persone con cui lavorava: anche se non li ha mai nominati».
Un altro aspetto oscuro che circonda l’ascesa di Putin fu l’ondata di attentati, con centinaia di vittime, che dilaniò la Russia: alcuni li hanno attribuiti a una operazione dello stesso Kgb.
«Non abbiamo prove certe al 100 per cento, ma sappiamo che c’è stato uno sforzo per mettere a tacere i testimoni: ci sono segni di legami fra il Kgb e gli attentati. So che è scioccante pensare che il Kgb avesse organizzato anche l’attacco al teatro Dubrovka a Mosca del 2002, concluso con un massacro, per ottenere il sostegno popolare alla guerra in Cecenia e assicurarsi che Putin corresse per un secondo mandato. Lui non era sicuro di volerlo fare, ma così intendevano legargli le mani sporcandogliele di sangue e impedirgli di ritirarsi. Pure in questo caso abbiamo solo prove circostanziali, non dirette. Ma da quello che sappiamo dei comportamenti del passato, il Kgb è capace di cose simili. Le testimonianze che ho raccolto sono credibili».
Da questa ricostruzione Putin sembra quasi un ostaggio. Lei lo definisce un frontman, il volto pubblico di un regime che lo circonda.
«Lui è il frontman di questo collettivo di uomini della sicurezza: va in televisione, si presenta bene come uomo d’azione, è bravo a costruire sostegno. Ma probabilmente non voleva restare al potere per tutto questo tempo: è stato pressato a farlo da questo gruppo, lui è l’uomo che deve tenere assieme il Paese, mantenere il potere per il bene della Russia, ma anche per il loro bene, dal momento che sono stati coinvolti in azioni nefande e sarebbe un rischio destabilizzante per loro se Putin si ritirasse».
Il suo libro descrive in dettaglio la penetrazione economica russa in Occidente, che sembra del tutto cieco.
«L’Occidente ha avuto una sorta di complesso di superiorità: pensano che la corruzione non sia un loro problema ma della Russia, e che se gli uomini di Putin portano denaro in Occidente non sia un vero problema. Abbiamo visto banche e avvocati accettare questo denaro senza fare troppe domande. Ma Putin ci ha dimostrato che si tratta di una minaccia, perché non è solo denaro trafugato dalla Russia e impiegato per acquistare yacht e magioni di lusso, ma viene usato per corrompere personaggi pubblici. L’Occidente è stato molto rilassato dopo la fine della guerra fredda, nessuno pensava che la Russia avrebbe usato quelle risorse per destabilizzarlo».
Alla penetrazione economica si accompagna l’influenza politica: qual è la loro strategia geopolitica?
«Vogliono ricordare all’Occidente che non è così forte come sembra. Putin ha cercato di ritagliare un ruolo maggiore per la Russia nell’architettura di sicurezza mondiale: chiedono una nuova Yalta in cui Mosca abbia le sue sfere di influenza. Ma se vuoi essere davvero rispettato, dovresti cercare di costruire un’economia più forte nel tuo Paese: invece Putin utilizza queste vecchie tattiche del passato, del Kgb, quando l’Urss non poteva competere direttamente con l’Occidente e utilizzava azione coperte e disinformazione. Per costruire un’economia forte dovrebbe rilanciare la concorrenza e questo metterebbe in difficoltà il suo stesso sistema e quello dei suoi alleati: hanno paura di questo perché temono che potrebbero trovarsi di fronte a una competizione politica. Sono intrappolati negli anni Settanta-Ottanta».
Sono come intrappolati da sé stessi: ma Putin non è eterno.
«Stanno cercando di venirne a capo: è un altro fallimento del loro sistema, non sono stati capaci di decidere la successione. Con questo referendum che si è appena svolto, che ha dato a Putin la possibilità di restare al potere fino al 2036, forse cercano solo di guadagnare tempo per risolvere la questione della successione. Perché per lui deve essere spossante: da un lato ama quello stile di vita ed è estremamente rischioso per lui e per la sua cerchia ritirarsi, ma d’altra parte la Russia è in un vicolo cieco, si avvia a una nuova era di stagnazione. Putin ormai è come un piccolo Brežnev».