La Lettura, 11 luglio 2020
La storia dell’Africa antica
François-Xavier Fauvelle, docente di Storia e archeologia dei mondi africani al Collège de France, ha diretto, con l’ausilio di numerosi contributori, un’opera, L’Afrique ancienne (2018) ora tradotta per Einaudi (L’Africa antica). Anche se vengono proposti due estremi cronologici molto distanti (dal 20.000 a.C. al XVII secolo), non si tratta di una vera storia, bensì piuttosto di un cantiere di specifiche ricerche che prendono le mosse da una serie di «tracce materiali». Archeologia, paleografia, storia dell’arte, storia religiosa vengono mobilitate nel tentativo non già di dare vita a un racconto quanto piuttosto alla ricostruzione del cammino grazie al quale una miriade di reperti ci sono giunti e magari attendono ancora di essere compiutamente interrogati. Alle pagine 486-489 figura una velocissima sintesi: si apre con «la prima nave portoghese» che raggiunge l’Africa nel 1488 e si spinge alle soglie del XVIII secolo (titolo: Dal primo contatto alla conquista). Essa aiuta a comprendere in che senso una così vertiginosa corsa tra i millenni possa ricondursi al concetto di «antico». La storia «moderna» dell’Africa è quella della progressiva conquista da parte dei colonizzatori e poi della faticosa e tuttora incompiuta decolonizzazione.
Varie questioni storiografiche vengono al pettine, alle prese con un tentativo storiografico di questo genere. Accenneremo solo ad alcune di tali questioni: il posto riservato all’Africa nelle «Storie universali», l’Africa come diversità radicale, unità problematica e difficile visione unitaria del Continente africano (ancor più che di altri Continenti, fatta salva – s’intende – la retorica), ruolo della decolonizzazione nella reimmissione dell’Africa nella indagine storica sul passato, liceità della «modernizzazione» indotta dall’esterno (cioè dai conquistatori) e capacità di resistenza delle culture aggredite, diversa profondità con cui le culture degli aggressori sono riuscite a mescolarsi con le culture aggredite.
Uno sguardo al genere letterario delle «Storie universali» è istruttivo: l’Africa è assente, o entra come repertorio di cranî illustrativi di quel potente pseudo-concetto che fu la «preistoria». Superate le pagine riservate ai cranî, in genere si passava presto all’Egitto e all’antico «Oriente», per precipitarsi poi a rifocillarsi con i Greci e i Romani, antenati dell’«Europa» caput mundi. Una tradizione che ha vigoreggiato, erede delle lezioni hegeliane sulla filosofia della storia (l’Africa non incrociava il cammino dello Spirito e l’Estremo Oriente, la Cina, era soltanto «un’immensa rovina», e già Bisanzio sapeva di esotismo). Ma anche nell’idea di passato di uno storicista integrale come Croce gli Ittiti sono citati come corpo estraneo perché non sono il nostro passato. L’esclusione dell’Africa dall’orizzonte anche di pensatori-uomini d’azione «internazionalisti» agli albori del XX secolo, colpisce ancora di più: nel più «terzomondista» degli scritti di Lenin (che è anche il suo testamento politico, marzo 1923: Meglio meno ma meglio) è insistente il richiamo a «Cina, India, Oriente», non altro. Ci vorrà mezzo secolo per avere a Mosca l’Università internazionale intitolata a Patrice Lumumba.
Una svolta storiografica è stata la Storia dell’Umanità promossa dall’Unesco e tradotta in Italia da De Agostini (2002). Nei primi due volumi l’Africa campeggia e lo sforzo di un racconto parallelo rispetto agli sviluppi di altre aree geografiche del mondo prosegue nei volumi successivi: costante, e spesso ben riuscito.
Fauvelle, il promotore di quest’Africa antica einaudiana, aveva pubblicato nel 2006 una Histoire de l’Afrique du Sud. Nel 1952, Hosea Jaffe aveva pubblicato a Cape Town: 300 Years. A History of South Africa (seguito da un volume, 1968, per l’Unesco sull’Apartheid). È giusto segnalare questi studi speciali per esemplificare l’inevitabile frantumazione di qualunque tentativo di scrivere una «storia dell’Africa»: giacché una storia è quella della tratta dei neri del Golfo di Guinea, altra è quella della moderna Sparta razzial-castale imposta dai «bianchi» al Paese di Nelson Mandela, altra cosa è l’arabizzazione e islamizzazione dell’intera Africa settentrionale, a partire dall’arrivo delle truppe di Amr ad Alessandria a metà del VII secolo. Il caso del Nord Africa è emblematico: fallì il processo di sovrapposizione dei conquistatori ellenistico-romani al sostrato indigeno e invece con gli Arabi diventò integrazione, e, col tempo, presupposto di lotte di liberazione contro gli «europei», primi dei quali erano stati i francesi in Algeria (1830-1840).
Un discorso a parte meriterebbe il grande problema dell’intreccio tra religioni e della mutazione che, su suolo africano, subiscono le religioni importate. In questo volume è stato scelto il caso dell’Etiopia cristiana e islamica, considerato nella prospettiva di un millennio (secoli VII-XVI). Il regno cristiano e la dinastia «salomonide» (di cui capostipite fu ritenuto lo stesso Salomone e, con lui, la regina di Saba, matrice ipotetica di tutta la discendenza) è un bell’esempio di intrecci di tradizioni e di culti: il sovrano «salomonide» costituisce egli stesso un punto d’incontro in quanto erede di Israele nonché prescelto dal Dio dei cristiani.
Terra di sincretismi, ma anche di sofferenze (mercato dello schiavismo mondiale fino a oggi), l’Africa rappresenta ancora – nonostante gli innumerevoli tentativi di snaturarla – una mentalità alternativa rispetto alla frenesia produttivistica vanto dell’«Occidente». Ben se ne accorse, e seppe raccontarlo in un libro durevole (Ebano), il viaggiatore polacco Ryszard Kapuscinski (1998). «La vita di questa gente – egli scrisse – è una fatica continua, una tribolazione sopportata con incredibile serenità e resistenza». Il volume curato da Fauvelle, da cui abbiamo preso le mosse, ha un grande pregio: aver capovolto la prospettiva colonialistica, penetrata in quasi tutte le «ideologie» dell’Occidente. Questo libro ci insegna che per millenni è dall’Africa che si è messo in moto, e si è alimentato, il dialogo delle civiltà.