La Lettura, 11 luglio 2020
Ho fatto un sogno, ero allo Strega
Cara dottoressa,
mi sono appena svegliato dopo un sogno importante, del quale non vorrei perdermi nemmeno un dettaglio: perciò mi metto qui e glielo scrivo, senza fidarmi della mia memoria, per poterne parlare compiutamente nella seduta del prossimo martedì. Mi sembra un sogno importante, le ripeto, col quale potremo proseguire il discorso sul «sono» e sul «sei» che abbiamo iniziato grazie all’altro sogno che ho avuto durante il lockdown.
Allora: nel sogno partecipavo di nuovo al Premio Strega, ero entrato in cinquina ed ero addirittura favorito. Del fatto che lo avessi già vinto anni fa c’era contezza, nel sogno, ma non era una cosa rilevante. Dunque ero approdato in cinquina, come ho detto, ma – attenzione – i libri in cinquina erano sei. Di nuovo questo numero, dunque, come nell’altro sogno. 6. «Tu sei». Per questo le dico che è un sogno importante. Io correvo con la mia casa editrice, La nave di Teseo, quella che ho contribuito a fondare insieme a Umberto Eco, Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose e tanti altri: il che significa che ero protetto, ero «a casa»; ma tra gli avversari c’erano gli unici editori che potessero vantare un credito con me, per via dei nostri trascorsi. Due di loro potrei definirli «padri», almeno in accezione editoriale, perché sono stati i primi a credere in me quando ero giovane. Uno era Paolo Repetti, che per l’appunto guidava la casa editrice Theoria insieme a Beniamino Vignola nel 1987, quando, di questi tempi, cioè in estate, mi telefonò mentre ero in visita ai miei genitori, a Prato, per comunicarmi la decisione di pubblicare il mio primo romanzo. A quella telefonata, cara dottoressa, seguì lo scoppio di felicità che ancora oggi ricordo come il più puro e incontenibile della mia vita, per gestire il quale dovetti mettermi in macchina (un Maggiolino) e fare in su e in giù tre o quattro volte il tratto di A1 tra Prato e Barberino urlando a squarciagola mentre il mangianastri a palla ripeteva I’m a wild one di Iggy Pop. E ora Repetti era lì, editore di uno dei miei avversari – che era, pensi un po’, Gianrico Carofiglio. L’altro «padre» mio concorrente era Gian Arturo Ferrari, l’ex capo della Mondadori che in effetti, dopo il primo romanzo pubblicato da Theoria mi «rubò» a Repetti e Vignola per portarmi a Segrate. (Repetti e Vignola, per la cronaca, si arrabbiarono moltissimo e mi dettero del traditore). La cosa assurda, dottoressa, sulla quale dovremo lavorare, era che Ferrari non era in lizza come editore di un altro dei finalisti ma era un finalista lui stesso, perché aveva scritto un romanzo e lo aveva pubblicato – si figuri – con Feltrinelli, che è l’editore dal quale mi rifugiai io dopo aver «tradito» lui, nel 1994, abbandonando la Mondadori per sottrarmi al conflitto d’interessi di Berlusconi.
Ma non è finita qui. Due degli altri tre finalisti (le ho pur detto che questa era una cinquina composta di sei autori) erano Valeria Parrella e Daniele Mencarelli, e nel sogno io dichiaravo che, se fossi stato un semplice giurato, avrei votato per loro, mentre l’ultimo era un esordiente di nome Jonathan Bazzi, il cui editore era nientemeno che Fandango Libri. Cioè, dottoressa, capisca bene questa cosa perché è importante, Fandango Libri è l’altra casa editrice che ho contribuito a fondare, vent’anni fa, una notte, in macchina sotto casa mia con Domenico Procacci che per me è una specie di fratello e che naturalmente era anche lui lì alla serata finale, anche lui mio avversario, seduto al suo tavolo insieme a sua moglie Kasia alla quale io stesso l’ho unito in matrimonio, l’anno scorso, con trentotto di febbre e la fascia tricolore sul petto.
Capisce, dottoressa, che nodo gordiano mi sono imbastito intorno? Che garbuglio di sentimenti? (Ah, una finezza: il libro di Jonathan Bazzi, quello pubblicato dal mio amico/fratello diventato avversario, intitolato Febbre, era citato dentro al mio romanzo; non mi chieda come sia possibile, nel sogno era una cosa assolutamente naturale, avevo scritto un romanzo nel quale a un certo punto consigliavo la lettura di un altro romanzo, e quest’altro romanzo era il suo, Febbre, che adesso mi contendeva il premio).
E ancora: la serata aveva luogo a Villa Giulia, come nella realtà, ma il giardino, che solitamente è gremito di tavoli e di gente assembrata, nel sogno era vuoto. C’erano solo pochi tavoli lontanissimi tra loro e pochissime persone a ogni tavolo. In più, la gente era mascherata: non tutti, in verità, alcuni erano mascherati e altri no, e la cosa assurda era che nessuno sembrava farci caso. Avremo modo, spero, di cercare il significato di questa mascheratura, e soprattutto di questa irrilevanza tra l’essere mascherati e non esserlo: io, al momento non lo vedo. Insomma ero lì – non ero mascherato —, in questa Villa Giulia vuota, metafisica, circondato dalla mia intera storia editoriale, e a un certo punto cominciava lo spoglio ma anche qui non era lo spoglio normale, col vincitore dell’anno precedente che estrae le schede una a una dall’urna pronunciando a voce alta il nome che ci sta scritto sopra; era uno spoglio digitale, diciamo così, che ognuno si faceva da sé puntando il telefonino contro un cartoncino che c’era al centro del tavolo. E comunque a un certo punto una ragazza (mascherata) veniva a prendermi e mi portava fuori dal giardino, dietro il loggiato dell’Ammannati, dove nel premio reale non si va mai anche se si dice sempre «Ninfeo di Villa Giulia» e invece nella realtà si sta solo nel giardino, perché il vero Ninfeo è quello, dove nessuno va mai – quel dietro, quell’oltre, quell’aldilà dove mi portava la ragazza mascherata, e dove mi lasciava solo pregandomi di rimanere «fuori dall’inquadratura». Lì, piantato nel nulla, c’era il podio della giuria con la famosa lavagna, come in un film di Fellini. E lì, molto freddamente, senza applausi e senza gioia, venivo chiamato dal presidente che mi proclamava vincitore.
Allora, cara dottoressa, che ne dice? Padri e fratelli in competizione, gente mascherata, vuoto, assenza di gioia, e tutte le altre stramberie: sono sicuro che non le sfugge la spietatezza con cui il mio inconscio mi ha messo nella trappola di non poter vincere senza automaticamente procurare una delusione a persone che ammiro, di cui sono amico o con le quali sono in debito. Dove sta, stavolta, il confine tra il «sono» e il «sei», sul quale stiamo lavorando? C’è da parlare un bel po’ di questo sogno, dottoressa, è vero o no?
A martedì,
Sandro Veronesi