La Lettura, 11 luglio 2020
Sul nuovo libro di J. M. Coetzee
C’è un ragazzino di dodici anni che dribbla con maestria gli amici in un campetto tra i caseggiati della periferia, ma il calcio è una sua passione recente, in realtà lui è un ballerino: se è maestro di qualcosa, è l’arte di comporre musica attraverso la danza. Quindi è un calciatore, un ballerino o un musicista? Difficile dirlo, perché è anche un bambino che ha imparato a leggere da solo sul Don Chisciotte, libro da cui non si separa mai e che conosce a memoria. Dall’Hidalgo ha appreso l’oltranzismo, l’intransigenza, il rigore che richiede ogni slancio, ogni atto di generosità. Gli amici, sia quelli vecchi sia quelli che incontrerà poco dopo l’inizio del romanzo, restano tutti ammaliati dalla sua personalità, ma anche gli adulti non sanno resistere al suo modo di parlare, soprattutto alle domande, che sembra forgiare in una materia incandescente. David, così si chiama il ragazzino, si ammalerà presto di un male misterioso, un male di cui la medicina può solo mitigare il dolore. Sicché, all’uomo che gli fa da padre da quando sono arrivati sull’isola (ma è un’isola?), David, usando la lingua del posto, la lingua nuova assorbita dal suo sacro testo, chiede: «Por qué estoy aquí?». Ovviamente si tratta di una domanda a più livelli. Il primo «qui» corrisponde all’ospedale e consente a Simón, il padre putativo, di rispondere: «Sei malato, figlio mio». Ma il lettore sa bene che David non si accontenterà, il suo «qui» sta molti livelli più sotto.
Ancora una volta, anche nella Morte di Gesù (tradotto mirabilmente da Maria Baiocchi), John Coetzee trova il modo di non darsi pace, e di non darla a noi, confrontandosi con l’unica questione che sembra stargli a cuore da sempre, la questione della verità. Per nulla narcotizzato dal Premio Nobel, vinto nel 2003, Coetzee apre una nuova finestra sul mondo e scopre le città di Novilla e di Estrella, la loro identità sfuggente, verrebbe da dire limbica, nella quale far crescere i personaggi di questa trilogia (vedi anche L’infanzia di Gesù e I giorni di scuola di Gesù) e, fra tutti, il suo piccolo messia contemporaneo, un Gesù puntuto, dall’aria maomettana, che sembra costringere la scrittura verso un’essiccazione che la farà assomigliare sempre più al silenzio, o forse meglio, alla forma più pura di ascolto.
In un’intervista raccolta in Doppiare il capo, Coetzee a un certo punto dice: «È ingenuo pensare che la scrittura sia un semplice processo in due tempi: prima decidi cosa vuoi dire e poi lo dici. Al contrario, come tutti sanno, scrivi perché non sai cosa vuoi dire. (...) La verità è qualcosa che emerge nel processo della scrittura». A me queste parole hanno sempre fatto pensare a una battuta dell’Edipo re: «La verità con tutta la sua forza vive dentro di me». È un’affermazione che Sofocle non a caso mette in bocca a Tiresia, il veggente che dice la verità senza possederla, attingendo dalla sua disavventura di essere stato uomo e poi donna e poi vecchio, con l’unica certezza di non aver mai saputo chi fosse. La verità non si vede, è inutile cercarla, solo un cieco come Tiresia può lasciarla venire in luce. La facoltà divinatoria della verità quindi comporta di per sé una trasformazione, più precisamente un’alienazione, un movimento definitivo di perdita di controllo, un viaggio verso la terra incognita dell’Altro. Ed eccoci infatti approdati sulle sponde di Novilla e poi di Estrella.
Sembrerebbe un’isola, un’immensa isola molto bene organizzata dove arrivano in continuazione profughi e migranti. Difficile non pensare al fatto che Coetzee da molti anni si è trasferito in Australia. L’ambientazione dei tre romanzi è quella di un posto in cui il passato non conta, sembra anzi non esistere. L’approdo comporta di fatto una nuova vita. Senz’altro conterà la posizione critica che l’autore ha pubblicamente espresso sull’atteggiamento del governo australiano in fatto di immigrazione, ma non c’è traccia di politica nelle pagine di questo libro, la cui posta in gioco è ben più alta.
Non si sa da chi sia amministrata né come funzioni Estrella, la città dove Simón e David si sono trasferiti da qualche anno insieme a Inés, la giovane donna che già a Novilla aveva di fatto adottato il bambino colmandolo di affetto, mantenendo invece nei confronti dell’uomo un atteggiamento di cordiale distacco che non andrà mai al di là della pura e semplice collaborazione genitoriale. Si sa che Estrella dispone di un’efficiente macchina burocratica, peraltro molto temuta dai nuovi cittadini, primo fra tutti Simón, che nel libro precedente ha nascosto il piccolo David al momento del censimento e, come se non bastasse, lo ha tenuto alla larga dalla scuola.
Coetzee ci conduce in una dimensione straniante dove le cose appaiono concrete, reali e al contempo inafferrabili, sempre minacciate se non dall’assurdo, dall’assenza di senso, o dalla sua imperscrutabilità, la stessa che si trova nel Castello. Kafka è un fantasma onnipresente nei lavori di Coetzee. A dispetto delle avversità, Simón intende rimanere nel nuovo mondo con lo stesso accanimento di K. Come l’eroe kafkiano non rimuove bensì cancella coscientemente ogni ricordo che possa riportarlo alla vita di prima e combatte la sua battaglia illuministica, affidata ai poveri strumenti della ragione umana, per aiutare il bambino che ama, e che ha cresciuto come fosse suo, ad affrontare un futuro a dir poco incerto.
L’amore per la logica è espresso in una lingua letteralmente semplificata, la cui forma è ridotta ai minimi termini secondo il modello estetico mutuato dalla matematica: la soluzione più elegante è sempre la più breve. Anche qui si tratta di un’eleganza fondata sulla densità, a cui va aggiunta un’idea di pulizia credo a sua volta inscritta in un’ecologia della mente, e quindi in un’etica, i cui tratti, soprattutto per lo sforzo limpidamente razionale, possono ricordare la scrittura di Primo Levi. Il fatto è che anche la radicalità del pensiero più lucido non può nulla contro il mistero. «Por qué estoy aquí?». Chi mi ha gettato in questa vita? E soprattutto, perché? Ma c’è di più: la radicalità della matematica confina con la follia e in fondo con la magia, come dimostrano l’orfismo e il pitagorismo a cui David sembra ispirarsi nella sua teoria dei numeri, nel suo rifiuto di addomesticarli nelle quattro operazioni, trattandoli invece come entità superiori, gemme da cui fioriscono i suoi passi di danza e la sua musica miracolosa. La verità non si dice, è semmai ciò da cui si è detti, prorompe dalla visione di David, dai suoi interrogativi spiazzanti, e Simón, l’incarnazione dell’uomo che si affida alla ragione, non può fare altro che porsi in ascolto con lo stesso sbalordimento, la stessa stupefatta rassegnazione dell’autore. «Ma chi scriverà un libro delle mie imprese? Tu? – Sì, lo farò se tu vuoi che lo faccia. Non sono un grande scrittore ma farò del mio meglio. – Ma allora devi promettere di non capirmi. Quando cerchi di capirmi rovini tutto. Prometti?».
Come dicevo, con i due romanzi precedenti La morte di Gesù sembra chiudere una trilogia, almeno così si esprime l’editore nel risvolto. La speranza ora, un vero atto di fede anche per i lettori meno religiosi dello scrittore sudafricano, è tutta nella resurrezione.