Tuttolibri, 11 luglio 2020
Don Winslow: Il mio omaggio al vecchio West
Per buona parte dell’ultima ventina d’anni, sono stato un maratoneta della letteratura. Quasi tutti i miei libri, e soprattutto la trilogia della «Guerra alla droga» (Il potere del cane, Il cartello e Il confine) sono stati delle maratone, lavori lunghi e pesanti che hanno attraversato i decenni e i continenti, con tanti temi e personaggi.
Mi piace la lunga distanza, mi piace la sensazione di essere solo su una strada deserta, con tanti chilometri davanti a me. Ho imparato persino ad apprezzare quella brutta sensazione, circa al trentesimo chilometro, quando mi sento esausto e devo chiamare a raccolta tutte le energie per spingermi a tagliare il traguardo assieme ai miei personaggi. E spesso lo tagliamo barcollando.
Comunque è stata una soddisfazione, e sono felice di aver scritto quei libri.
Ma dopo aver terminato Il confine ed essere arrivato alla fine nelle solite condizioni pietose, ho deciso che volevo provare qualcosa di diverso, qualcosa per rinfrescare un po’ le gambe, diciamo così.
Le idee per alcune delle storie che compongono Broken, il mio nuovo libro (una raccolta di sei novelle), mi ronzavano in testa da anni. Solo che ero troppo occupato a correre le mie maratone per metterle in pratica. E c’era anche un altro problema: sapevo che quelle storie non erano i romanzi epici che tendevo a scrivere, ma non erano nemmeno racconti. Tanto per torturare la metafora della corsa, sapevo che non erano i cento metri piani. Certo, si svolgevano in uno stesso posto nel giro di giorni o settimane, invece di decenni, e ciascuna aveva solo uno o due personaggi principali; tuttavia erano più sostanziose di semplici racconti, e avevano bisogno di più spazio.
Erano delle corse da dieci chilometri, per così dire.
Erano novelle.
Ammiro da tempo le novelle di scrittori come Stephen King, Jim Harrison, Richard Russo e Richard Ford, e anche se come scrittore non sono al loro livello, ho pensato di provare quel format. Ho anche riletto la classica novella di Tolstoj Chadži-Murat, come esempio di ciò che si può fare con quel genere letterario.
È stata un’esperienza intimidatoria, perché io non sono Tolstoj.
Ma ci ho provato lo stesso.
C’è voluto qualche assestamento.
Da un lato, i miei libri precedenti avevano richiesto grandi ricerche. Per settimane, mesi, non scrivevo quasi nulla, limitandomi a leggere e prendere appunti, a fare uscite sul campo o a intervistare qualche fonte. Mentre il tipo di storie verso le quali mi stavo imbarcando erano in massima parte un lavoro di pura immaginazione, basato su idee nuove informate da conoscenze precedenti.
Dall’altro, ho scoperto che ormai avevo organizzato le mie giornate intorno a un ritmo da maratona: controllato, costante, lento. Mi alzavo al mattino prima dell’alba e mi allacciavo le scarpe, sapendo che mi sarei trovato davanti la stessa strada del giorno prima, un giorno dopo l’altro per mesi. Andavo a letto la sera sapendo che il giorno dopo sarebbe stato molto simile a quello appena trascorso.
Ero anche legato alla cronologia. Scrivendo libri che in pratica erano romanzi storici, marciavo all’interno di una sequenza di eventi (benché romanzati) e la mia via era già segnata. Sapevo quali punti di riferimento cercare, e se anche mi allontanavo dal sentiero battuto (come facevo spesso), sapevo come ritrovare la strada: bastava cercare il prossimo evento importante.
Con le novelle non è stato così.
Ogni giorno era diverso e non sapevo mai cosa sarebbe successo da una pagina all’altra. Non essendo legato da eventi storici, ero libero di andare ovunque. E mentre una simile libertà è tonificante, fa anche paura: i punti di riferimento erano scomparsi.
Era esaltante, ma intimidiva; ero un cavallo da tiro che all’improvviso si trovava libero di correre nella prateria.
Poi è emersa un’altra sfida interessante.
Scrivendo romanzi epici di notevole lunghezza, restavo in compagnia di molti personaggi per mesi, se non per anni. Ho passato più tempo con Art Keller, il protagonista de Il potere del cane, Il cartello e Il confine, che con qualsiasi altro essere umano, a eccezione di mia moglie e mio figlio. Per ventitré anni, ci siamo visti quasi tutti i giorni. Perciò sapevo cosa pensavano quei personaggi, cosa avrebbero fatto e detto, senza doverci riflettere su. Sapevo come avrebbero reagito in qualunque situazione.
Di nuovo, con le novelle non è stato così. Dovevo creare nuovi personaggi, il che era divertente, ma anche difficile. Non avevo il tempo di farli conoscere al lettore nel corso di molti capitoli, ma dovevo presentarglieli subito, entro le prime pagine.
Dovevo trovare dei piccoli particolari che trasmettessero l’essenza di quei personaggi: ciò che ero abituato a fare con descrizioni narrative, ora dovevo farlo con rapide immagini.
Farlo mi è piaciuto, è stato divertente, ma è stato anche diverso.
L’altro aspetto nuovo era la consapevolezza del traguardo. Quando corri la maratona non lo vedi e non ci pensi, ma nell’equivalente letterario di una corsa di dieci chilometri lo senti sempre incombere, e mi faceva quasi paura. Spesso mi dicevo che dovevo affrettarmi a finire.
Ma poi facevo un respiro profondo e ricordavo che non si trattava dei cento metri piani, che avevo comunque il tempo per sviluppare i personaggi, per includere una diversione qua e là, e magari un po’ di umorismo.
Dovevo ricordarmi che il traguardo l’avrei deciso io: la storia sarebbe finita al momento giusto.
In un paio di queste novelle ho scoperto che mi piaceva tornare a scrivere cose divertenti. I miei libri precedenti erano molto seri, scrivevo di tragedie della vita reale. È stato un piacere tornare a ridere e a cercare di far ridere il lettore.
Un altro grande potenziale di questa raccolta era la varietà che offriva. All’interno della stessa copertina, potevo scrivere un thriller, la storia di una rapina, una commedia, un noir, una favola postmoderna e un neo western, senza uscire dal mio amato genere letterario: la crime story.
Sono stato lodato e condannato per la mia tendenza a scrivere diversi tipi di libri. Editori e librai si sono lamentati dicendo che non sapevano come «marchiarmi» (al che io rispondevo che non ero un vitello). Dal lato positivo, un critico mi ha definito un «mutaforma». Io non ne so nulla, so soltanto che voglio scrivere quello che mi va.
Il jazz è sempre stato importante nella mia vita e ha avuto un’influenza enorme sul mio lavoro. Non ho mai frequentato un corso di scrittura, ma credo che il jazz mi abbia insegnato a scrivere i thriller. Pensando a Broken, avevo in mente un disco jazz e ho tratto ispirazione dai miei eroi, che potevano suonare bebop, cool jazz, melodie liriche e bellissime ballate nello stesso disco. Come nel jazz, volevo decidere un tema iniziale, improvvisare al centro e poi tornare al tema d’apertura verso la fine, anche se con note diverse.
Farlo mi ha dato la possibilità di suonare tantissime note e accordi diversi in una varietà di ritmi. È una cosa che mi va bene: un sassofono può lanciare urla stridenti, correre in una fuga di note o prendere toni morbidi, e resta sempre un sassofono.
Ma una melodia ha bisogno di un tema centrale, come ne ha bisogno un disco o un libro, perciò Broken inizia e finisce con una considerazione su cosa significa sentirsi rotto, spezzato, almeno nel contesto del mondo criminale.
Io giro intorno a quel mondo da un pezzo, in realtà da tutta la vita, e posso dirvi che nessuno di coloro che ci vivono a contatto, poliziotti, criminali, avvocati, giudici, giornalisti e anche scrittori, ne esce intero.
Io sono cresciuto accanto alla mafia. Ho fatto l’investigatore per quindici anni e poi ne ho trascorsi altri venti nella famosa guerra alla droga. In quel periodo ho effettuato acquisti di droga sotto copertura, ho cercato persone scappate di casa, mi sono occupato di incendi dolosi, omicidi (sia per conto dell’accusa che della difesa) e di casi di abusi sessuali su bambini. Sono entrato nelle carceri, sono stato ai funerali, ho ascoltato persone che mi raccontavano le loro storie. Ho visto i cadaveri, ho guardato foto di autopsie e video di atrocità. Senza voler essere troppo drammatico, un paio di volte ho pensato che mi si sarebbe spezzato il cuore.
A causa di tutto questo, ora sono una persona diversa.
Conosco molti poliziotti (e anche molti criminali), e ho visto scorrere lacrime sulle guance di questi «duri», uomini e donne, mentre mi raccontavano cose successe a volte trent’anni prima. Seduto davanti a loro, ho ascoltato confessioni di omicidi. Mi è toccato andare a dire a delle persone che un loro caro non sarebbe più tornato a casa.
Puoi uscire da quel mondo, ma nessuno ne viene fuori intero.
Perciò le novelle Broken e L’ultima cavalcata sono l’inizio e la fine di questa raccolta, gli accordi di apertura e di chiusura o, per tornare all’analogia della corsa, il primo e l’ultimo passo.
La prima storia, Broken, parla di vendetta. Ora, la vendetta di per sé non mi interessa molto. Quello che mi interessa sono le conseguenze interiori della vendetta sulla persona che la cerca e a volte la ottiene. L’ho ambientata a New Orleans, città di cui non avevo mai scritto, anche se in parte ci sono cresciuto, per un paio di motivi. Primo, è una città spezzata che tenta ancora di riprendersi dalle conseguenze dell’uragano Katrina, quindi era il luogo ideale; secondo, mia madre, nata a New Orleans (i miei genitori si erano conosciuti lì durante la seconda guerra mondiale) stava vivendo i suoi ultimi giorni mentre scrivevo questa novella e io desideravo tornare in quella città, anche solo con l’immaginazione. È strano come funziona la mente di uno scrittore. Ho cominciato a cucinare piatti cajun che non mangiavo da quando ero ragazzo: jambalaya, fagioli rossi e riso, quel tipo di cose, e mi sono messo ad ascoltare musica N’Orleans.
Ironicamente, mia madre è morta pochi giorni dopo la pubblicazione del libro. Posso facilmente immaginarla al Roosevelt Hotel, al Morning Call, o mentre passeggiava lungo St. Claude.
Dopo Broken volevo suonare jazz e volevo rendere omaggio ad alcuni miei eroi.
Se non ricordo male, Rapina sulla 101 è stata la prima novella che ho scritto per questa raccolta, e l’ho dedicata a Steve McQueen, che rappresentava la personificazione della bella vita californiana (anche se la sua gioventù è stata decisamente dickensiana, stando a ciò che se ne può leggere) che è l’ambiente in cui si svolge la storia, come tante altre dei miei libri.
Insomma, io amo la mia vita, ma se potessi essere Steve McQueen non esiterei. Ovviamente è impossibile (io non sono figo: se cercate «figo» nel dizionario trovate una mia foto con la didascalia «non è questo»), perciò la cosa che posso fare è scriverne, e ho pensato che sarebbe stato bello, figo, avere un personaggio modellato su Steve McQueen.
La novella seguente l’ho dedicata a Elmore Leonard.
Ed è stato un onore poterlo fare. Quando ero giovane e pensavo di fare lo scrittore, leggevo i libri di Leonard e pensavo: «Caspita, se potessi scrivere storie così…». Be’, non posso, è una cosa che nessuno può fare, ma con Lo zoo di San Diego volevo scrivere una storia che mantenesse almeno lo spirito del genio di Leonard, i suoi personaggi strambi, i suoi dialoghi. Agli inizi della mia carriera ho cercato di imitare Elmore Leonard, perciò ringraziarlo con questo omaggio era il meno che potessi fare.
La novella si apre con la battuta: «Nessuno sa come ha fatto lo scimpanzé a prendere la pistola», dopodiché non avevo altro. Quella battuta mi girava in testa, così alla fine l’ho scritta e ho proseguito da lì. Lo giuro, fino alla fine del racconto davvero non sapevo come quel dannato scimpanzé avesse messo le mani sulla pistola. Ho improvvisato mentre scrivevo, tenendo a mente il detto di Leonard «Evitate le parti noiose», che è forse il miglior consiglio mai dato agli aspiranti scrittori.
La storia successiva, Sunset, l’ho dedicata a Raymond Chandler, il nonno di noi tutti. Se io scrivessi altri cento romanzi durante i prossimi cento anni, non potrei sperare di scrivere nulla che valga nemmeno la centesima parte di Il lungo addio. Pensateci: «Quando lo vidi per la prima volta, Terry Lennox era ubriaco in una Rolls-Royce Silver Wraith fuori dalla terrazza del Dancers». Nessuno scriverà mai un incipit migliore di questo. Uno scrittore medio avrebbe scritto: «La prima volta che vidi Terry Lennox, era ubriaco in un’auto fuori da un nightclub». Ma Chandler ha preso il noir e l’ha reso poesia. Quella prima frase è un pentametro giambico, la metrica preferita da Shakespeare.
Ho ambientato Sunset a San Diego, perché come abitante di San Diego mi diverte molto sfottere i miei amici di Los Angeles con il fatto che Chandler ha scritto qui i suoi grandi romanzi ambientati a Los Angeles. Vi rivelo un segreto: la casa del protagonista di questa novella è proprio quella in cui ha vissuto Chandler.
Sono andato a visitarla, è stato come andare in chiesa.
E parlando di chiesa, la storia seguente, Paradise, è appunto sul paradiso. L’isola di Kauai è un luogo dove ho trascorso alcuni dei miei momenti più felici, ed è davvero un paradiso. Una definizione del paradiso è quella di un posto in cui rivedi le persone care che hai perduto, e questo succede nella storia. Il format della novella mi ha consentito non solo di creare nuovi personaggi, ma di riportare in vita Ben, Chon e O, i protagonisti di Le belve e I re del mondo. Poi è successa una cosa un po’ imbarazzante: quando li ho portati a Kauai, mi sono reso conto che avevo lasciato lì altri amici da libri precedenti. La coincidenza era irresistibile e ho dovuto esplorare cosa sarebbe successo se tutti quei personaggi si fossero incontrati in quel luogo.
Anche in Lo zoo di San Diego e Sunset ho ripreso alcuni vecchi personaggi, ed è stato divertente riportarli al presente e farli interagire con persone nuove.
La storia finale si intitola, in modo appropriato, L’ultima cavalcata, ed è stata anche l’ultima che ho scritto. Pensavo che Paradise fosse il finale giusto per la raccolta, ma poi ho capito che non era così, che dovevo tornare agli accordi risolutivi del concetto di rottura. In questo caso si trattava di un paese spezzato, il mio paese, che separava i bambini dai genitori e li metteva in gabbia.
Se non è rotto un meccanismo del genere, non so cosa lo sia.
Ho detto prima che L’ultima cavalcata è un neo western. Infatti parla di un cowboy, conservatore e sostenitore di Trump, che lavora nella Pattuglia di Confine e sorveglia la frontiera. Quando vede una bambina le sue idee cominciano a cambiare, e volevo che lui, e il racconto, tornassero ai vecchi valori occidentali, a un’epoca in cui noi salvavamo i bambini.
Chandler ha scritto una frase famosa sull’eroe detective privato: «Lungo queste cattive strade deve scendere un uomo che non è incattivito». Ho sempre pensato che il romanzo noir americano discenda dal western americano, e Chandler avrebbe anche potuto scrivere: «Lungo questi cattivi canyon deve cavalcare un uomo che non è incattivito».
Il codice d’interpretazione è lo stesso.
Io vivo in un vecchio ranch non lontano dal confine. Negli anni Novanta, durante il picco dell’immigrazione (quel picco non è adesso, non lasciatevi ingannare da Trump e dai suoi compari), in fondo ai nostri terreni trovavo spesso accampamenti di migranti clandestini. Conosco bene il confine, l’ho percorso in macchina, a piedi e a cavallo.
Molti dei miei vicini sono agricoltori bruciati dal sole. Io sono il simbolico tizio di sinistra capitato lì. L’inverno scorso tre donne migranti sono morte congelate sulle montagne non lontano da casa nostra. I contrabbandieri le avevano lasciate lì, dicendo loro di dirigersi a nord. Loro si erano perse, era arrivata una tempesta di neve ed erano morte.
Ora, non ho alcun dubbio che se qualcuno dei miei vicini avesse saputo della presenza di quelle donne tra le montagne, sarebbe uscito a cavallo per cercarle, nonostante le loro idee politiche. Questo è il vecchio codice del West, quello che dobbiamo recuperare, quello che Trump e i suoi tagliagole hanno pervertito fino a trasformarlo in una cattiveria che sta seccando l’anima della nazione.
Vivo sul confine ormai da circa venticinque anni. Molti miei vicini e amici sono americani di origine messicana. Le famiglie di alcuni di loro sono qui da centinaia d’anni, altri sono arrivati in tempi più recenti. Quasi tutti gli altri sono, come ho detto, angloamericani conservatori e nativi americani che vivono nelle riserve.
In questo quarto di secolo non ho visto, nemmeno una volta, un conflitto per ragioni etniche. Socializziamo tra noi, siamo fianco a fianco nei consigli d’amministrazione delle scuole, i nostri figli si sposano tra loro, andiamo insieme a matrimoni e funerali. Insieme abbiamo combattuto incendi e ricostruito i nostri villaggi, insieme abbiamo affrontato la recessione. Perciò, quando Trump e i suoi scimmioni (senza offesa per scimpanzé, gorilla e orangutanghi) alimentano l’odio, chiamano i miei amici e vicini di casa (che sono tra le migliori persone che abbia mai conosciuto, persone a cui voglio bene) ladri, assassini e violentatori, io mi sento… sì, incazzato nero.
Questo è ciò che si è spezzato, ciò che dobbiamo riparare, e questo è il motivo per cui la raccolta finisce con questa novella.
Viviamo tempi difficili.
Tra la situazione politica, quella razziale e il Covid-19, sembra di volare in una nuvola dalla quale non riusciamo a uscire. Ma in qualche modo io ho la sensazione che sia un tutt’uno, che, almeno qui negli Usa, il virus sia la manifestazione fisica di una malattia spirituale che ha infettato il paese dal 2016. È come una vescica dovuta alla febbre.
È difficile essere uno scrittore, di questi tempi (è difficile essere chiunque, di questi tempi), perché qualsiasi invenzione letteraria non corrisponde alla realtà. Le storie che scrivi sembrano irrilevanti, inadeguate alla situazione. Ho finito Broken molti mesi prima che scoppiasse la pandemia, e ora mi sembra quasi un’altra vita. Spero solo che queste novelle regalino ai lettori un po’ di sollievo e piacere.
Il modo in cui io affronto la scrittura, tuttavia, resta più o meno lo stesso. Scrivere, dopotutto, è un’attività isolata, solitaria, che già di per sé usa il distanziamento sociale. Mi alzo ancora prima dell’alba, al momento più per abitudine che per necessità, ascolto i primi canti degli uccelli e mi godo le ore fresche prima che inizi la calda giornata estiva. In queste prime ore lavoro fuori, poi vado nel mio studio, che si trova a un centinaio di metri dalla casa, in una vecchia stazione di benzina. Presto per l’estate ci trasferiremo nella ex casa di mia madre sulla costa orientale, in un piccolo villaggio a poco più di un chilometro dalla spiaggia, dove mi metterò a lavorare sotto il portico, come faccio da molti anni. Ho iniziato a lavorare lì per non svegliare mia madre la mattina presto; ora è semplicemente un posto che mi piace.
Ero in quella casa la notte in cui è stato eletto il presidente Obama e ho esultato con mia moglie e mia madre e ho chiamato mio figlio che lavorava per lui, ho chiamato i miei amici e ho festeggiato la vittoria.
Anche quella mi sembra un’altra vita.
La nazione ora è spezzata. Abbiamo cinque brevi mesi per tentare di rimetterla insieme.
Prego che ci riusciremo.
Continuerò a scrivere, perché è ciò che so fare.
State tutti bene.