La Stampa, 11 luglio 2020
Il borsello e la democrazia
Il lettore mi perdonerà, o più probabilmente mi ringrazierà, se gli risparmio i passaggi tecnici. Ma grosso modo le cose sono andate così: venerdì mattina, a Venezia, come se stesse parlando di Vivaldi o del Canaletto, il presidente Conte ha annunciato la proroga dello stato d’emergenza. Gliela dovrà concedere il Parlamento, una volta spiegata qual è l’emergenza, e in quale orbita eserciterà il suo beneamato dpcm. Per i più distratti, il dpcm (decreto del presidente del Consiglio) è una legge emanata dal premier dopo essersi consultato con Rocco Casalino e qualche ministro. Differisce dal decreto semplice perché quest’ultimo entra subito in vigore ma entro una data certa va approvato dalle Camere (le care leggi ordinarie votate in Parlamento non portano più, sono come il borsello, antiestetiche). Dunque, da qui a fine anno, Conte continuerebbe a decidere questo e quello per come gli gira. Ed è buffo perché siamo (quasi) tutti tornati al lavoro, viaggiamo con le metropolitane e i treni, la sera andiamo al ristorante, ci beviamo una roba ai tavolini del bar, organizziamo cene con gli amici, in un volonteroso approccio alla normalità. Soltanto il governo si sente di restare in un regime eccezionale e, a essere maliziosi, vien da pensare sia l’unico modo per evitare l’andirivieni in quell’impiccio che è il Parlamento, con l’aria litigarella che tira e la maggioranza ridotta a un’ipotesi. Ecco, forse l’emergenza non è tanto nel Paese quanto nel governo e allora tocca sopravvivere, e con l’alibi di salvare la democrazia dall’orco Salvini se ne prolunga la reclusione in quarantena. Ricordo che la democrazia qui ha 75 anni, è una categoria a rischio.