Ho ancora in mente l’immagine rovente di Giordano Bruno. Sia per il rogo con cui si pose fine alla sua vita in piazza Campo de’ Fiori nel febbraio del 1600. Sia per i suoi scritti incendiari. Chi più di Bruno ha provato a bruciare tutte le convenzioni? Ho appena finito di leggere la biografia che Michele Ciliberto gli ha dedicato in una nuova edizione ( Il sapiente furore, edita da Adelphi). Bella e intensa, come un gesto di ribellione verso il mondo ordinario. Ciliberto è convinto che un autore deponga, più o meno involontariamente, nei suoi libri tracce indelebili di sé. Ed è come se una vita fantasma improvvisamente si materializzasse, scoprendo i propri segreti. L’anno scorso si era cimentato con Machiavelli, altra sua grande passione, e l’impressione è che egli vada a caccia di dettagli che rivelino le parti meno note di un’identità. Chi erano Machiavelli e Bruno e in che modo ancora ci parlano? «Furono due pensatori eretici che ancora oggi ci spaventano perché mettono in discussione ciò che è noto, acquisito, considerato chiuso una volta per tutte». Ciliberto insegna alla Normale di Pisa. È un signore gradevole.
Uno studioso di statura europea di Umanesimo e Rinascimento.
È giusto definire Giordano Bruno un “martire del libero pensiero”?
«Si tratta di un mito che lo ha trasformato in una sorta di eroe popolare: più amato che conosciuto. Ancora oggi esistono seguaci che credono di esserne la reincarnazione».
Nel metterlo al rogo che cosa abbiamo bruciato
insieme al corpo?
«Gramsci che lo amava disse che quella morte tra le fiamme fu più un dramma europeo che italiano.
Voleva dire che un’esperienza come quella di Bruno non sarebbe più stata possibile in Italia. La partita si era chiusa e la Chiesa aveva vinto. Da quel punto in poi, come commentò Paolo Sarpi, il nostro paese sarebbe vissuto solo in maschera, dissimulando».
Fu un addio al pensiero eretico.
«In realtà, Bruno continuò a circolare in modo sommerso e clandestino. Anche l’Europa si è nutrita del suo pensiero come di Campanella e Galileo. Senza di loro le libertà dei moderni non sarebbero nate o non sarebbero state quelle che conosciamo».
Come è arrivato a lui?
«Bruno non fu una mia scelta. Me lo impose in un certo senso Eugenio Garin, il mio maestro. Mi ero laureato su Machiavelli durante il fascismo. Se volevo diventare uno studioso serio, mi disse Garin, dovevo allontanarmi di qualche secolo».
Intanto si era allontanato da Napoli.
«A Napoli sono nato e ricordo un’infanzia meravigliosa, trascorsa in gran parte nella masseria di campagna, dominata da mia nonna, una delle donne che ho più amato nella mia vita. Vengo da una famiglia contadina per parte paterna e da una famiglia di intellettuali, tecnici, musicisti per parte materna. Mio padre era un uomo gentile. L’opposto di mia madre, che somigliava a una matriarca meridionale. Una donna di poche parole. Esigente. Voleva che il mio lavoro, quale che fosse, venisse svolto bene e senza perdite di tempo».
Come è finito a Firenze?
«Su indicazione di un mio professore di liceo. Gli confessai che avrei voluto studiare filosofia. Mi sconsigliò con fermezza e poi si rassegnò, dicendomi: almeno vada via da Napoli. Pensavo di fare il concorso alla Normale di Pisa, volevo studiare e laurearmi con Delio Cantimori. Ma seppi che si era trasferito a Firenze. La cui università vantava maestri di primissimo piano».
Chi c’era?
«Oltre a Cantimori e Garin, vi erano Cesare Luporini, Paolo Rossi, Ernesto Sestan, Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Ernesto Ragionieri. Un gruppo di professori che non aveva eguali in Italia. Alla fine, poiché Cantimori cominciava a non stare bene, chiesi a Garin di laurearmi con lui».
Che tipo di maestro è stato?
«Diceva Giorgio Pasquali che i maestri vanno cucinati in salsa piccante. Altrimenti perdono di sapore. Non lo penso. Ci sono incontri che possono cambiarti la vita.
Per me è stato così con Garin, e non solo sul piano intellettuale. Fu lui a volermi al vertice dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento e sempre lui a spingermi a fare la domanda per la Normale di Pisa che poi è stata l’esperienza più importante. Ci insegno da vent’anni e vi dirigo il Centro Edizioni della Scuola.
Sarà questo il lavoro della mia prossima vita».
L’editore?
«I libri sono stati parte fondamentale della mia vita.
Studiarli e scriverli. Ma anche produrli. È una sensazione bellissima. Certi pomeriggi li trascorrevo nello studio di Garin, ammiravo gli scaffali pieni di prime edizioni. Prendersi cura dei libri è un po’ come prendersi cura dell’anima del mondo».
Garin, come Luporini, Cantimori, Ragionieri, è stato un intellettuale legato al Pci. Che giudizio dà di quel rapporto?
«Aveva un legame forte con il Pci ma, diversamente dagli altri, non si iscrisse mai al partito. Sapeva di poter incidere più da fuori che da dentro e aveva ragione.
Considerava un errore di ingenuità l’iscrizione di Cantimori. E fu felice quando Delio non rinnovò la tessera del Pci. Oltretutto, Garin ricevette come dono da Cantimori una raccolta di poesie di Georg Trakl, con una dedica significativa: “Distaccato, non separato”».
La verità è che non ce la faceva a staccarsi del tutto. Però quel rapporto che molti intellettuali ebbero con la sinistra comunista si è in larga parte dissolto. È un bene o un male?
«La questione degli intellettuali finisce sostanzialmente nella seconda metà degli anni Settanta, quando inizia il tramonto ideologico del Pci e del marxismo nelle forme che aveva assunto da noi con Gramsci. Sono anche gli anni in cui cominciano a imporsi le filosofie europee. Circolano con sempre più insistenza i nomi di Heidegger, Husserl, Derrida, Foucault. È una storia che arriva fino a noi ma che si è anch’essa esaurita».
Quelle filosofie – penso all’esistenzialismo, alla fenomenologia – hanno provato a interagire con il mondo della sinistra. Ma allora a cosa imputerebbe la sua attuale crisi politica e culturale?
«Secondo me, e lo ripeto, tutto viene dagli anni Settanta. Il destino dell’Italia di oggi fu deciso allora.
Quel decennio fu anche un terreno di grandi battaglie vinte sul piano dei diritti individuali e collettivi.
Vero. Si impose la domanda del cambiamento sul piano sociale, economico e anche istituzionale. Ma la risposta della sinistra del Pci fu sostanzialmente conservativa e tarda. Sono convinto che la sinistra cominciò allora a smarrire i contatti con la società italiana. Sono lì le radici del berlusconismo – della mutazione antropologica che impose – e dei fenomeni con cui ancora oggi siamo chiamati a fare i conti. La decadenza della sinistra non è di questi anni. Oggi ne vediamo soprattutto gli effetti».
Viviamo dentro una crisi prolungata. Qualcosa di analogo si verificò nel Quattrocento. Anche allora era in atto una radicale mutazione sociale e politica del tessuto italiano. L’Umanesimo, di cui lei è un autorevole studioso, rappresentò il punto artistico e culturale più alto di quella storia. Che giudizio ne ha ricavato?
L’umanesimo fu solo in parte la risposta positiva ai problemi che il mondo di allora poneva. Per lo più decretò la fine delle illusioni. La stagione del disincanto non nasce con Weber e il Novecento, ma con Alberti, Machiavelli e Guicciardini, i quali gettano sull’uomo uno sguardo tragico e senza illusioni.
Sull’Umanesimo è a lungo prevalsa l’immagine di un’epoca armoniosa e serena; in realtà è stato il tempo di una lunga crisi, che ha cambiato il ruolo e la funzione dell’Italia nella storia del mondo. Alberti, Machiavelli, Guicciardini, come Bruno e Campanella, divergono nelle soluzioni, ma non nella consapevolezza di essere immersi in questa crisi».
In che cosa consiste questa crisi?
«Nella impossibilità di fornire un’immagine coerente e risolta dell’uomo. La sua azione è frutto del calcolo razionale, della passione ma anche del caso. I grandi pensatori dell’Umanesimo, come Alberti e Machiavelli, sanno quanto sia fondamentale la Fortuna».
A proposito di Machiavelli, lei ha preso le distanze da chi lo ha ridotto al solo fatto politico.
«Per lui la politica è il vertice dell’esperienza umana, ma come tutti i grandi umanisti ha avuto un’idea assai ricca della vita e della molteplicità dei mondi di cui si compone. Per esempio se si vuole capire la sua riflessione politica bisogna rivolgersi anche al suo teatro, che è una componente essenziale della sua personalità».
In questi anni è prevalsa l’interpretazione di Machiavelli teorico del conflitto.
«È una semplificazione. Per lui il vero problema è l’“ordine”, che implica la necessità della legge».
E a proposito del suo realismo?
«Machiavelli è tutt’altra cosa dal machiavellismo, che è una pura tecnica di potere. Machiavelli è in primo luogo un cittadino fiorentino, un patriota. Spinoza, che lo comprese meglio di tutti, gli riconobbe la statura del grande pensatore della crisi, che va affrontata con tutti i mezzi per salvare la libertà. Una condizione che Machiavelli difese, consapevole con Lucrezio – il suo vero maestro – che tutto muore, perché la vita si consuma e finisce».
Si sostiene che la democrazia oggi non sia più in grado di difendere quei diritti che fin dall’origine facevano appello alla libertà.
«La crisi della nostra democrazia viene da lontano. Già Tocqueville ne vide le contraddizioni. Mi limiterei, anche in questo caso, a puntare l’indice sugli anni Settanta. È allora che si rompe il nesso tra governanti e governati, politica e società, partiti e cittadini. Un fatto mi pare chiaro: non si esce dalla crisi con la democrazia diretta, questa può portare solo al dispotismo. Allora che fare? Vanno radicalmente ripensati gli strumenti e i luoghi della rappresentanza, i rapporti tra poteri, i modelli di cittadinanza in un mondo che muta alle radici».
Ritiene che questi mesi trascorsi in emergenza, in un tempo storico che sembra segnare uno spartiacque tra il prima e il dopo, ci induca o costringa a quei cambi radicali cui alludeva?
«Ho qualche dubbio che si possa assistere al miracolo della trasformazione dell’acqua in vino e che improvvisamente saremo tutti più buoni, più coesi e più solidali. Troppe volte ho assistito a dichiarazioni del tipo, appunto, “niente sarà più come prima”. E puntualmente mi sono riconfermato nell’idea che l’uomo è un animale culturale finito e che, come non è cambiato in passato, così non cambierà in futuro. Se esiste un Dio, è indecifrabile, come diceva Guicciardini. Il che non significa che si debba passare il tempo a rigirarsi i pollici. Dopotutto, ci sarà anche meno libertà ma avremo pur sempre il libero arbitrio».
Il suo adorato Bruno del libero arbitrio pagò tutte le conseguenze.
«Ma lì fu soprattutto la passione a regolare le scelte. Il furore era per lui un impeto razionale, una sorta di ossimoro che tiene insieme ragione e passione. Ma penso anche che non basti il libero arbitrio, per ogni compito importante ci vuole la chiamata. E quando si viene chiamati, bisogna rispondere, facendo il proprio lavoro nel modo migliore e fino in fondo. Diligenza e voluttà, diceva Contini. Ecco, mi trovo in questo binomio. E questo ha coinvolto anche il mio lavoro di insegnante: è sempre stata una vocazione, non una semplice professione. E ha dato frutti. Miei allievi ora insegnano a Berkeley, Philadelphia, Yale, Londra, Varsavia. Certe volte ripenso a loro mentre leggo i poeti che amo e la musica che prediligo: Auden, Celan, Pound. E poi Berlioz, Webern, Shostakovich. E Verdi, per la cui grandezza non ci sono parole. Musica e poesia sono i soli strumenti, oltre al lavoro sulle idee, che mi hanno consentito di oppormi a ogni tipo di sopraffazione. E di sopravvivere in questo tristissimo scampolo di storia pubblica».