Robinson, 11 luglio 2020
C’era una volta il linguaggio
Quando hanno cominciato a parlare i Sapiens da cui discendiamo? Secondo alcuni studiosi sarebbe accaduto in un’epoca compresa tra i 100 mila e i 60 mila anni fa per effetto di una sorta di esplosione, un big bang improvviso e risolutivo; si sarebbe trattato d’una conquista unica, un patrimonio esclusivo dell’Homo sapiens. Secondo altri la parola è invece il risultato di un processo assai lento, che si è svolto nel corso del Pleistocene, e riguarderebbe tutta la classe Homo, compresi i Neandertaliani estinti da tempo immemorabile, e con ogni probabilità anche l’Homo erectus. Michael C. Corballis, autore de La verità sul linguaggio (per quello che ne so) è tra coloro che sostengono questa seconda tesi. A partire da 2,9 milioni di anni fa, nel corso del Pleistocene, i nostri antenati ominidi furono costretti ad abbandonare le foreste abitate sino a quel momento, che andavano riducendosi, e si trasferirono in una prima fase in aree costiere, dove cercarono il cibo sulle rive, poi definitivamente nella savana e nelle praterie dell’Africa. Qui dovettero affrontare i feroci felini, così come nell’acqua avevano fronteggiato altri e diversi pericoli. Il linguaggio nascerebbe come uno strumento di comunicazione per sostenere le nuove minacce e per trasmettere conoscenze ed esperienze al gruppo umano.
Corballis ha pubblicato anni fa un libro, Dalla mano alla bocca, in cui ha provato a dimostrare come il linguaggio verbale derivi da quello gestuale, praticato non solo dall’Homo, ma anche dai nostri antenati comuni, scimpanzé e bonobo, i quali possiedono un’eccellente capacità di manipolazione e di gestualità, un ottimo controllo dei propri arti, di molto superiore a quello vocale.
Corballis ha anche scritto tempo fa un libro molto interessante, La mente che vaga, dove ha spiegato come funzionano le tecniche di brain-imaging, su cui è stata fatta una ricerca attraverso la risonanza magnetica, per verificare quali parti del nostro cervello s’attivano nella rete neuronale. Lo studioso neozelandese riprende qui il tema del vagabondare, esperienza che ci permette d’arrivare alla mente degli altri, e quindi di capirli. Chi riesce a fare al meglio questa attività di pensiero immaginativo sono, non a caso, i romanzieri che danno fondo alle risorse messe a disposizione da due tipi di memoria: la “memoria episodica”, che riguarda eventi specifici del passato, e la “memoria semantica”. La prima ci permette di ricordare una particolare cena in un ristorante, mentre la seconda arricchisce il ricordo con quello che sappiamo dei ristoranti e delle cose che vi accadono.
Quello che ci distinguerebbe dagli animali è la capacità di condividere i nostri viaggi mentali, la capacità che si esprime attraverso il racconto e la letteratura. La sua proposta interpretativa si fonda sulla convinzione che linguaggio sarebbe prima di tutto un sistema di comunicazione e non una modalità di pensiero, come invece sostengono le teorie di Chomsky. Dietro le spalle dello studioso neozelandese s’intravede l’ombra gigante di Charles Darwin. L’idea su cui si fonda l’ipotesi della derivazione del linguaggio vocale da quello gestuale s’appoggia su quanto ha scritto il padre dell’evoluzionismo: «La differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto grande, è certamente di grado e non di genere» ( L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, 1871).
Come si è passati dai gesti manuali propri degli animali superiori ai gesti vocali degli ominidi? Corballis pensa che il ponte naturale sia stato il volto. Così come la posizione eretta e la postura seduta hanno liberato le mani per la comunicazione, allo stesso modo la parola ha liberato gli occhi dei vedenti. Corballis specifica che l’idea di questo spostamento del linguaggio dalla mano alla faccia, e poi al tratto vocale, è una semplificazione; le cose sono più complesse.
Rispetto ai due libri precedenti, questo si presenta più e articolato e a tratti persino ridondante, tuttavia pieno di idee che possono essere utili a chi ragiona sull’evoluzione, e anche a chi si occupa di letteratura, e più in generale a chi, e sono tanti, utilizza la propria mente per vagare e immaginare.