La Stampa, 10 luglio 2020
A chi importa la sessualità dei volti Rai?
«Basta piccolezze, bassezze. Di fronte alle persone non mi chiedo mai con chi vanno a letto», ha giustamente detto il direttore di Rai Uno, Stefano Coletta, in occasione della presentazione del nuovo programma condotto da Monica Maggiori, liquidando così l’assurda e volgare polemica lanciata alcuni giorni fa da Mario Adinolfi. Ospite di Giuseppe Cruciani e David Parenzo a La Zanzaza, il leader del "Popolo della famiglia" aveva parlato di Rai Uno come di "Gay Uno", e si era poi soffermato su quella che è, per lui, l’evidente "omosessualizzazione della rete"; conseguenza, sempre per lui, della "lobby gay" che dirigerebbe oggi Palazzo Chigi.
Se non vivessimo un momento particolarmente delicato per tutti coloro e tutte coloro che, da troppi anni, aspettano una legge sull’omotransfobia, si potrebbe sorridere e archiviare in fretta e furia i deliri verbali e il complottismo paranoico di Adinolfi. Ma siccome Adinolfi è tra i principali promotori, sabato prossimo a Roma, in Piazza del Popolo, dell’ennesimo Family day per dire "no" alla legge sull’omotransfobia, è forse più giudizioso spendere qualche parola, come è stato d’altronde costretto a fare pure Stefano Coletta. Discutere in Parlamento una legge contro l’omotransfobia non ha nulla a che vedere con la fantomatica esistenza in Italia di una "lobby gay". Anzi. È una necessità, visto che viviamo in un Paese che assiste settimanalmente a episodi di violenza contro le persone omosessuali o trans e che, da un punto di vista culturale, oltre che economico, sta decisamente regredendo. E poi che senso può mai avere interrogarsi sull’orientamento sessuale di un presentatore televisivo o di un giornalista o di un politico o di un professore universitario? E non lo dico solo perché la separazione tra la sfera privata e la sfera pubblica è uno dei cardini della nostra democrazia liberale – era sotto il Fascismo che lo Stato era "tutto" entrando sin nelle camere da letto degli italiani per definire e decidere cosa fosse o meno lecito fare – ma anche, e forse soprattutto, perché il sesso, il genere e l’orientamento sessuale, al giorno d’oggi, dovrebbero essere neutralizzati, ossia risultare indifferenti quando si parla del lavoro: sesso, genere e orientamento sessuale non rappresentano né una competenza specifica, né un handicap, né un fattore che merita, in un modo o in un altro, di essere preso in considerazione quando c’è bisogno di organizzare un dibattito televisivo o un convegno scientifico, oppure anche di coordinare una task force o governare un paese.
Nessuno sceglie il proprio sesso, esattamente come nessuno sceglie il proprio orientamento sessuale. Si tratta di elementi della propria identità su cui nessuno è chiamato a giustificarsi. A differenza invece di quando si agisce, si sceglie di comportarsi in un certo modo, o si sviluppano o meno determinate competenze. È la differenza fondamentale tra il mondo del "fare" e quello dell’"essere". Ci sono cose che si fanno e altre da cui è meglio astenersi; ci sono comportamenti che possono essere valorizzati e altri invece che si devono sanzionare. Ma mai e poi mai questi criteri di valutazione possono legittimamente essere applicati alla sfera dell’essere. Ora, le dichiarazioni grossolane e dozzinali di un Adinolfi contribuiscono a creare confusione (tra l’essere e il fare) e ad abbassare il livello culturale del dibattito pubblico. «Basta piccolezze, bassezze», ha proprio ragione Stefano Coletta. È arrivato il momento di farla finita con le polemiche sterili e dannose.