Sette, 10 luglio 2020
Intervista a Don Winslow
Nella sua vita da romanziere, Don Winslow non ha mai passato più di cinque giorni senza scrivere. Nel 2015, appena consegnato l’ultimo volume della trilogia che lo ha reso famoso in tutto il mondo, Il Cartello, ricominciò subito a comporre. Denny Malone, il protagonista del successivo romanzo Corruzione, «è nato quel pomeriggio», racconta a 7 collegato via Zoom dal suo studio nella campagna fuori San Diego, una vecchia pompa di benzina a 100 metri da casa. In questi giorni – proprio mentre in Italia sta uscendo il suo ultimo lavoro, Broken – si prenderà però, per la prima volta, una pausa più lunga: insieme alla moglie Jean è partito per un viaggio in automobile da una costa all’altra degli Stati Uniti, per raggiungere la sua residenza estiva di Perryville, villaggio di pescatori del Rhode Island in cui è cresciuto.
«L’ho fatto per 14 anni, ma questa volta sarà diverso a causa del Covid. Normalmente sono come un cane: sto seduto e guardo fuori dal finestrino», spiega. «In questi viaggi trovo ispirazione e dettagli per le mie storie, però sono anche un po’ tristi, perché mi sveglio presto in una stanza di motel, con mia moglie che ancora dorme, e me ne sto là, al computer. Stavolta però proverò a non scrivere almeno per una settimana, e vediamo come va». Scrivere, per Winslow, è una dipendenza. A partire dagli Anni Novanta ha prodotto oltre venti romanzi, che sviluppa due alla volta: uno alla mattina – comincia a lavorare presto, attorno alle 5.30, ora di questa intervista – e uno nel pomeriggio. «Verso le 14 so di aver fatto abbastanza con il primo progetto, in genere quello più pesante, ma non sono ancora pronto per smettere. Così passo al secondo», racconta con l’imbarazzo di chi sta ammettendo la dipendenza che gli ha condizionato la vita.
«Passo il 90% del mio tempo da solo, in questo studio, e anche durante il lockdown la mia vita non è cambiata molto: negli Stati Uniti c’è una sorta di zeitgeist d’ansia che tocca tutti eppure, se penso alla routine quotidiana, le mie giornate sono tutto sommato le stesse». Nella sua sterminata produzione, Broken è stata una novità, non solo perché in Italia è il primo pubblicato da HarperCollins, ma soprattutto perché per la prima volta si cimenta con un racconto più breve. Il libro è composto da sei novelle, alcune con personaggi che ritornano, altre totalmente slegate: un agente accecato dal desiderio di vendetta a New Orleans, un inseguimento psicologico sull’autostrada 101 che percorre la West Coast americana, un codice segreto nascosto in una canzone di Peter, Paul & Mary, un salto doloroso nella realtà al confine fra Stati Uniti e Messico. «Negli ultimi vent’anni ho corso sulla lunga distanza. Mi piace scrivere queste maratone epiche, però nel frattempo avevo idee per altre storie, che sapevo non potevano reggere quella lunghezza: erano notevoli, ma allo stesso tempo non erano ancora romanzi. Leggendo le novelle di Stephen King o Jim Harrison, mi sono chiesto allora se quel formato non potesse funzionare per alcune di queste idee», afferma Winslow, 66 anni, sorseggiando un caffè alla scrivania a cui è solito lavorare in piedi.
«In una – Lo zoo di San Diego, nda – parto da una frase: “Nessuno sa come ha fatto lo scimpanzè a prendere la pistola”. Quelle parole si sono rincorse nella mia testa per anni, alla fine mi sono seduto e ho pensato: “Non lo so, come l’ha preso quel revolver?”. E da lì i personaggi si sono evoluti». In L’ultima cavalcata, la novella che chiude Broken, «l’ispirazione è arrivata dai giornali: è la storia di bambini strappati alle loro famiglie e buttati in gabbie, sul confine fra Usa e Messico, finché qualcuno decide di intervenire. È l’ultima storia che ho scritto, e sentivo di doverlo fare». Sebbene sia stato terminato lo scorso anno, Broken affronta tutti i temi più controversi della storia contemporanea americana: droga, immigrazione, disoccupazione, ma anche razzismo e brutalità della polizia che, dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis, sono tornati al centro del dibattito pubblico in tutto il mondo. «Quando ho scritto il libro e pensato al titolo, avevo la sensazione che si fosse rotto qualcosa qui negli Stati Uniti, ma non fino a questo punto», spiega Winslow, che sorridendo ammette di non essere riuscito a prevedere la pandemia con una sfera di cristallo.
«Onestamente la responsabilità è del governo», prosegue. «Io scrivo polizieschi, il mio compito primario è farlo bene e saper intrattenere il lettore con personaggi e storie interessanti. Detto ciò, sono anche un autore di polizieschi piuttosto realistici e, per forza di cose, finisco per raccontate la situazione sociale», afferma. «In America, negli ultimi tre anni e mezzo, abbiamo avuto un’amministrazione che avanza ogni giorno più velocemente verso il fascismo. Grazie al Covid abbiamo una disoccupazione di massa, e per lungo tempo abbiamo avuto diseguaglianze di reddito: la questione razziale però va avanti da 400 anni, non da otto minuti e mezzo», chiarisce, riferendosi agli ultimi istanti della vita di Floyd, il 46enne nero morto sotto il ginocchio di un poliziotto bianco a fine maggio. «Stavamo facendo progressi, poi è arrivato questo tizio alla Casa Bianca. Per me tutto quello che sta succedendo – le tre crisi epocali in corso negli Stati Uniti: sanitaria, economica e sociale – è come la manifestazione fisica di una malattia spirituale, come se il Paese fosse stato malato per tre anni e mezzo e poi fosse esplosa la febbre. So che non è così, ma ho questa sensazione: abbiamo covato questa febbre a lungo e poi baaam, eccola che viene fuori».
Winslow racconta di parlare spesso con poliziotti, anche dopo «l’ultima ondata di proteste e omicidi di giovani ragazzi neri: ho ricevuto chiamate quasi ogni giorno, volevano parlare di questo. Molti sono dell’opinione che le cose debbano cambiare: è tutta una questione di reclutamento, formazione e supervisione. Alcune persone semplicemente non dovrebbero fare il poliziotto, sono razziste e/o hanno un ego fragile, sentono che la loro mascolinità è in pericolo. Penso però che sia un errore isolare la polizia dalla società, quando parliamo di razzismo: gli agenti non vengono da Marte, li reclutiamo fra la popolazione. Solo perché mettiamo qualcuno dentro a una giacca blu non significa che si comporterà diversamente dagli abitanti di una città, di uno Stato, di una nazione. Per questo non risolveremo mai il problema del razzismo nella polizia finché non affronteremo quello, più grande, del razzismo nell’intera società». Stiamo parlando di personaggi di fiction, ci tiene a precisare, ma Jimmy McNabb, protagonista della novella Broken che dà il titolo al libro, «sarebbe piuttosto riluttante davanti allo slogan Defund Police», il movimento che vuole tagliare i finanziamenti alla polizia.
Selvaggio, animato da rabbia e vendetta sullo sfondo di una New Orleans cupa e in mano ai cartelli della droga, «McNabb non cambierebbe di molto», mentre il poliziotto newyorkese Denny Malone – personaggio principale del romanzo Corruzione, che con la droga cerca di guadagnarsi una pensione – avrebbe una reazione diversa. «Penso che Denny sarebbe più consapevole», afferma Winslow chiamandolo affettuosamente per nome, come fosse un figlio. «Non credo che gran parte dei poliziotti siano cattivi: solo il New York Police Department ha 38 mila agenti, sono tantissimi», spiega. «Molti rispettano le regole e durante le loro carriere non incontrano nessuno dei miei poliziotti. Poi ci sono quelli che fanno i loro affari all’interno della polizia: non accetto la scusa delle poche mele marce, penso che ci sia razzismo sistemico nei dipartimenti. Prima però è nella società, poi si riflette sulla polizia».
Le proteste che chiedono la riforma della polizia, intanto, hanno portato alla cancellazione del reality show Cops : dopo 32 stagioni di inseguimenti e arresti, la Paramount Network ha deciso di sospendere dalla programmazione uno dei più longevi programmi televisivi americani proprio alla vigilia dei nuovi episodi, perché diffondeva un’immagine non realistica, distorta, spesso mitigata degli agenti. «Forse succederà anche ai romanzi polizieschi, ma non mi preoccupo: scrivo quel che voglio», ribatte Winslow, per il quale la cancel culture – la pratica di non supportare più persone, aziende o istituzioni che sono considerate inaccettabili dal punto di vista etico – potrebbe tutto sommato contribuire a «rendere gli autori più consapevoli di ciò che scrivono, più inclusivi». D’altronde, Winslow si dice d’accordo con il movimento che sta abbattendo statue in tutti gli Stati Uniti in nome della giustizia sociale. «Se penso a quelle confederate, per me rappresentano dei traditori. Quando i miei amici del Sud mi dicono che difendevano i diritti degli Stati, rispondo che in realtà si battevano per il diritto di tenere altre persone in schiavitù: il mio quadrisavolo è stato ucciso per combatterla. A Fredericksburg, in Virginia», racconta. «Può essere complicato guardare alla nostra storia, come nel caso di Cristoforo Colombo, ma penso che sia arrivato il momento: siamo nel 2020, ed è ora che realizziamo come la presenza di queste statue e monumenti sia dolorosa per altre persone».
A sentirlo parlare – o seguendolo sui social network, dove si impegna in uno sfrenato attivismo contro Donald Trump – non sembrerebbe, eppure Winslow sostiene di non aver mai voluto essere una persona politica, di non esserlo per natura. «Già prima dell’elezione di Trump, però, ho cominciato a diventare più politico, in particolare quando ho scritto la mia trilogia sulla droga: un po’ per la natura di questi libri, un po’ per ciò che ho letto durante le ricerche. Ho scritto una lettera aperta al Congresso, pubblicata sul Washington Post, in cui chiedevo la fine della guerra alla droga, e so di avere aperto con i miei libri una discussione su questo tema, in particolare all’interno della polizia», spiega. «Quando scrivevo quei libri sulla droga era più difficile dormire, perché i soggetti erano duri e la ricerca è stata brutale. Non voglio però neanche paragonare i miei piccoli disagi con quelli dei giornalisti messicani assassinati mentre facevano il loro lavoro: se un romanziere americano ha un paio di incubi non è un grande problema».
«Non sono stato minacciato come Roberto Saviano, prendo giusto qualche precauzione in più, e ora a tenermi sveglio sono più che altro i libri: quelli nuovi che bollono in pentola e non mi lasciano dormire», ammette ridendo, tornando a quella dipendenza dalla scrittura, alla ricerca meticolosa di dettagli che danno ai suoi libri un ritmo inconfondibile. «Ho un metodo di ricerca particolare, che parte dalla storia: credo molto nella cronologia», spiega. «Poi leggo: giornali, documenti dei tribunali, della polizia, dell’Fbi. Infine parlo con la gente, ma non voglio farlo troppo presto, perdendo tempo con domande basiche di cui dovrei già sapere la risposta. Non voglio i fatti da loro, perché dovrei già conoscerli: sono interessato a sapere quello che pensano e come si sentono. Voglio cogliere quei piccoli dettagli che puoi ottenere solo con l’osservazione e i dialoghi, che sono necessari per prendere il ritmo, il gergo e il modo in cui la gente si parla in questi mondi».
Ai suoi coetanei, racconta Winslow, l’America attuale ricorda quella tumultuosa del 1969/70. «A me invece sembra più che altro una rievocazione della guerra civile, di problemi che pensavamo fossero risolti, ma che chiaramente non lo erano», spiega. «Con la gente di estrema destra, negli Stati Uniti, sono arrivato al punto che davvero non mi importa un cazzo di quello che dicono o di come si sentono, ma solo di quello che fanno o non fanno: c’è davvero bisogno di un dialogo per sapere che non devi tenere il ginocchio sul collo di qualcuno per otto minuti e mezzo?», domanda, con gli occhi pungenti che filtrano attraverso il monitor. «Oggi penso che ci sia parecchia paura negli Stati Uniti, in particolare fra le persone con il mio stesso profilo demografico: i bianchi di mezza età temono di star perdendo qualcosa. L’elezione di Trump ha legittimato quella paura, quel risentimento», afferma. «Ai miei vicini conservatori – e ne ho parecchi, vivo in un ranch in campagna e qua intorno sono tutti repubblicani – dico: “Amico, avevi un vantaggio di 400 anni e se non puoi vincere una corsa con questo vantaggio allora non è la tua corsa”. Insomma, se non sei contento della tua vita, e di dove sei, non è colpa di un’altra persona, di un messicano o di un nero. Se vuoi esercitare la tua rabbia, fallo verso la corporate America, il mondo delle imprese che ha spedito all’estero il tuo lavoro».
Non dipende solo da Trump, sostiene lo scrittore, ma il presidente ha toccato «qualcosa che era dormiente e ha legittimato quel sentimento di paura, quindi ora è normale essere uno stronzo razzista», dice. «C’è una sola questione in questa elezione: liberarsi di lui. Questa per me è l’elezione più importante dal 1860 – quella che portò alla presidenza Abramo Lincoln – e non so se questo Paese può reggere altri quattro anni così. Biden mi piace, è una brava persona. Non sarà così di sinistra come in molti avrebbero voluto, non è giovane come altri avrebbero preferito, non si esprime con la chiarezza di Obama, sul quale comunque ho espresso le mie critiche: se però lo compari all’aspirante dittatore che si trova alla Casa Bianca, ora abbiamo bisogno di decoro e di qualcuno che creda nella democrazia», afferma, rivelando che il figlio Thomas, dopo aver lavorato per Obama, è ora il capo dello staff nella campagna di Biden. «Stavo diventando politico prima di Trump», ripete, «ma non così tanto. Ora spero che essere attivo sui social media possa accendere altre persone. Penso che stiamo vivendo tempi straordinari e, anche se non è così forte, credo di dover far sentire la mia voce. Tempo fa ho visto la serie tv tratta dal libro di Philip Roth, Il complotto contro l’America : è eccezionale, ma al tempo stesso inquietante. Così vicina alla nostra realtà. Come The Handmaid’s Tale : a guardarla sembra che stia succedendo davvero».