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 2020  luglio 09 Giovedì calendario

Biografia di Gherardo Felloni raccontata da lui stesso

Gherardo Felloni, direttore creativo di Roger Vivier dal marzo 2018, è così visceralmente toscano che sembra dire dugento anche quando pronuncia con impeccabile proprietà deux cent in francese. Nato vicino ad Arezzo nel 1980, è cresciuto nel calzaturificio fondato dallo zio nel 1958 e successivamente diretto da suo padre. Nel frattempo ha studiato biologia oltre a canto e recitazione: una formazione degna del suo eclettismo.
Ad appena 20 anni viene a Milano per entrare nell’ufficio stile di Prada dove disegna prima le calzature di Helmut Lang e poi quelle di Miu Miu. Nel 2009 trasloca a Parigi per lavorare da Dior inizialmente con John Galliano e quindi con Raf Simons. Cinque anni dopo lascia la mitica maison francese per tornare da Miu Miu. L’approdo da Roger Vivier, storico marchio di calzature francesi rilevato nel 2001 dai fratelli Diego e Andrea Della Valle, è il coronamento di un sogno per questo italiano da esportazione che ha trascorso il lockdown nella sua seconda casa: il Faro delle Vaccarecce sull’isola del Giglio.
Lei vive a Parigi da 11 anni come mai è tornato in Italia proprio in questo periodo?
«Ai primi di marzo sono venuto qui per controllare i prototipi della nuova collezione e poi volevo fare il weekend al mare. È arrivato il lockdown, sono scappati tutti e io mi sono detto: sono così fortunato ad essere qua non torno a Parigi».
Ma da quanto tempo possiede il Faro delle Vaccarecce?
«L’ho acquistato nel 2015. Era all’asta da almeno 20 anni e quindi son stato l’unico a fare un’offerta. È stato un colpo di fortuna anche se aveva un sacco di problemi tra cui innumerevoli vincoli delle Belle Arti perché è un monumento storico. Mi sono buttato in questa impresa, ci son voluti 5 anni, ma ne sono fiero. Ho continuato a lavorare da qui in questi mesi: è bastato potenziare la connessione».
La sua moda è stata influenzata dalla pandemia?
«Non esiste una moda che non venga influenzata da qualsiasi evento d’importanza mondiale. Questo virus ha avuto un grande impatto su tutto: ci ha fatto riflettere e ha cambiato la nostra percezione delle cose. Inoltre i tempi si sono ridotti perché prima siamo stati fermi 3 mesi e adesso ci muoviamo con mille precauzioni».
Durante l’ultima guerra Ferragamo fece le scarpe con la stagnola dei cioccolatini, con le reti da pesca e con il sughero perché non si trovavano i materiali. Adesso tutti lasciamo le scarpe fuori dalla porta per paura dei microbi e a furia di stare in casa molte donne hanno disimparato l’uso dei tacchi, non pensa di fare collezioni ad hoc?
«No, spero piuttosto che questa situazione sia passeggera e che non ci sia una ricaduta. Prima della pandemia avevo fatto una linea per la casa, tipo le pantofole col pelo oppure i sandali da trekking con gli strass. Ma era un divertissement, non una necessità. Piuttosto ora siamo costretti a fare meno cose per farle meglio, perché poi chi va a comprare è spaventato quindi dobbiamo focalizzarci al massimo».
Secondo lei ci vestiremo allo stesso modo oppure no?
«Questo purtroppo lo sapremo l’anno prossimo. Per quanto mi riguarda sicuramente c’è un’attenzione maggiore ai grandi classici del brand. Chi ha la fortuna di averli li valorizzerà maggiormente perché è logico pensare che le clienti andranno su cose più sicure».
Pensa che a settembre ci saranno le fashion week?
«Ci spero e ci sto lavorando anche se penso che probabilmente si potrà fare poco e con poche persone. Ormai da qualche stagione Roger Vivier ha un punto di vista cinematografico che mi piace molto. Stiamo organizzando le cose in modo che tutti possano vedere tutto anche senza muoversi da casa. Se stampa e compratori non potranno viaggiare andremo noi sui loro schermi cercando di mostrare il più possibile quello che c’è. Certo mi spiacerebbe molto anche perché vorrebbe dire che siamo ancora in grande pericolo».
Insomma sta facendo un film con Andrea Danese, il bravissimo scenografo e regista con cui organizza le fantasmagoriche presentazioni di Roger Vivier a Parigi?
«Sì, lui mi stra-aiuta però stiamo ancora cercando di capire cosa fare. Non è facile».
Lei ha lavorato con Dior che è la quintessenza della francesità, con Bertelli che è di Arezzo come lei e ora con Della Valle che è marchigiano doc. Che differenza c’è tra l’imprenditoria italiana e quella francese?
«Ci sono tante differenze ma forse la più importante è la conoscenza e l’attaccamento al prodotto. Gli italiani si focalizzano molto su questo: sanno tutto su come e dove si fa, chi è più bravo a farlo e perché. Forse a volte dimenticano che c’è bisogno anche di storytelling. Ci sono momenti in cui il prodotto è molto importante e altri in cui passa in secondo piano e prevalgono il marketing e la comunicazione. In questo sono più forti i francesi».
In effetti in Francia la moda è cultura mentre qui...
«Non trovo che gli italiani siano meno interessati dei francesi alla cultura. Certo io son stato fortunato perché prima ho lavorato con Prada e Bertelli mentre ora lavoro con Della Valle: gente che ha una vera e propria ossessione per l’arte e la storia. Dico solo che i francesi sono bravi a capitalizzare tutto questo. I loro marchi hanno più facilità a essere considerati istituzionali: hanno un’allure che è più comprensibile».
Come si trova da italiano a Parigi?
«La Francia è un paese che accoglie. Non ti accoglie con l’amicizia e il bel vivere, ma ti fa lavorare. In Italia ho imparato tantissimo in Francia però sono riuscito più facilmente a utilizzare il mio bagaglio di competenze: sono stato preso per quello che sapevo fare. In Italia è più complicato ma da noi c’è una cosa sacra: la catena del valore. Ogni singolo pezzo dei nostri prodotti deve essere molto speciale. Non a caso tutti i marchi con cui ho lavorato producevano in Italia».
Potrebbe produrre altrove?
«No, sarebbe impensabile. Abbiamo le manifatture più eccellenti, andare fuori dall’Italia significherebbe avere un savoir-faire diverso. La Francia negli ultimi 50 anni ha perso tutta la parte artigianale, ha avuto una crescita economica diversa rispetto a noi che invece abbiamo ancora i migliori artigiani al mondo. Bisogna preservarli. E poi io sono un po’ campanilista. La Patria è una anche se vivi in un altro Paese».