Avvenire, 9 luglio 2020
Stranieri, Boris Johnson ha sbagliato i conti
Quella della regolarizzazione dei cittadini europei residenti nel Regno Unito è uno dei capitoli più delicati dell’annoso processo di separazione tra Ue e Regno Unito. E ad appena cinque mesi dall’entrata in vigore effettiva della Brexit, fissata per il primo gennaio 2021, l’operatività del sistema messo a punto dal governo britannico per stabilire chi può (o non) rimanere comincia a scricchiolare. Secondo i dati del ministero degli Interni, le richieste inoltrate fino a maggio per ottenere il cosiddetto “settled status”, ovvero il riconoscimento della residenza sull’isola a tempo indefinito, sono state 3,6 milioni, molte di più rispetto a quelle inizialmente previste.
L’Ufficio nazionale di Statistica (Ons) aveva stimato che, nel complesso, ne sarebbero arrivate 3,4 milioni. Considerato, poi, che siamo solo a metà del percorso, e che la richiesta per la regolarizzazione potrà essere inoltrata fino al 30 giugno 2021, la previsione risulta fortemente sottostimata. Il problema di fondo è legato al fatto che non è possibile sapere, con esattezza, quanti sono gli europei residenti Oltremanica perché nel corso degli anni non tutti, italiani compresi, si sono iscritti ai registri dei cittadini all’estero dei rispettivi paesi di origine. Il Financial Times ha portato a galla l’ampio buco nei dati dell’Ons (secondo cui nel 2019 i cittadini dell’Ue nel Regno Unito erano circa 3,7 milioni) mettendoli a confronto con quelli dichiarati dalle singole ambasciate. È così venuto fuori che, per esempio, se gli statistici britannici rivelano 88mila olandesi, 37mila cechi e 109mila ungheresi, le ambasciate a Londra di Amsterdam, Praga e Budapest, sulla base dei passaporti registrati, ne contano, rispettivamente, 150mila, 100mila e 200mila.
Al di là degli errori di rilevazione, il problema non è solo tecnico. Le statistiche hanno valenza politica perché utilizzate per indirizzare le negoziazioni attualmente in corso sulle future relazioni tra Londra e Bruxelles. Come sottolineato anche da un recente rapporto dell’Osservatorio sull’immigrazione dell’Università di Oxford, senza una chiara idea di quanti sono gli aventi diritto non è per esempio possibile valutare l’opportunità di estendere, e per quanto, il piano per la concessione del “settled status” oltre la scadenza già fissata al 30 giugno 2021. Secondo un’associazione impegnata nella difesa dei diritti degli europei nel Regno Unito, “The3mil-lion”, inoltre, la mancanza di chiarezza dei dati aumenta il rischio che molti, tra quelli che hanno diritto a rimanere ma che per varie ragioni non ne fanno richiesta, possano essere poi costretti al rimpatrio. I più esposti a questo scenario sono gli anziani e i lavoratori che pensano di aver chiuso i conti con la burocrazia britannica solo perché in possesso di residenza. A rischio, avverte la onlus Coram, ci sono anche 9mila bambini in carico al sistema sanitario britannico per problemi di salute, spesso demenza molto grave: di loro, appena 500 hanno formalizzato la richiesta a rimanere.
Da come il governo di Boris Johnson gestirà la faccenda, che minaccia di creare una versione europea della «generazione Windrush», dipende poi l’approccio che l’Ue avrà nei confronti dei britannici residenti sul continente, una tra le maggiori preoccupazioni manifestate di recente in Parlamento da Michael Gove, ministro dell’Ufficio di Gabinetto. Nei prossimi mesi, scrive il Guardian, 13 dei 27 paesi europei potrebbero mettere a punto un sistema solo digitale per la regolarizzazione dei britannici proprio come quello che Londra testerà sugli europei. Tra le criticità irrisolte c’è quella di come identificare ai controlli chi avrà ricevuto il «settled status» e chi no, considerato che al momento non è previsto il rilascio di alcun documento fisico. Si discute tra l’altro sull’opportunità, particolarmente a cuore del Parlamento Europeo, di istituire a Londra un’Autorithy che nell’era post Brexit possa vigilare sulla tutela dei diritti degli europei.