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 2020  luglio 09 Giovedì calendario

Intervista a Daniel Birnbaum, direttore di Acute Art

«Non eravamo preparati all’impossibilità di godere l’arte nella sua concretezza fisica. La pandemia ci ha obbligati a correre per portare virtualmente l’arte ovunque». Daniel Birnbaum dal 2019 è direttore a Londra di Acute Art, la prima vera piattaforma dedicata a progetti di realtà aumentata e realtà virtuale. Accessibile a tutti, gratuitamente e con un clic (www.acuteart.com), la piattaforma coinvolge giganti dell’arte contemporanea e nuovi artisti per sperimentare le possibilità aperte dal progresso tecnologico. Prima di prenderne le redini, Birnbaum è stato curatore della Biennale di Venezia 2009, rettore della famosa scuola d’arte Staedelschule di Francorforte e direttore di uno dei più importanti musei al mondo, il Moderna Museet di Stoccolma. «Quello dell’arte virtuale era un mondo molto lontano dal mio anche se con la direzione di Pontus Hultén al Moderna Museet arrivarono nel 1966 Robert Rauschenberg e Billy Klüver con E.A.T., progetto per molti aspetti più azzardato di quanto sia oggi Acute Art, che usa un linguaggio ormai acquisito nella quotidianità».
Come è passato dallo spazio fisico dei musei a una realtà che potremmo definire inesistente?
«Una delle attività più stressanti di un direttore è convincere le nuove realtà economiche e tecnologiche a sostenere la vecchia idea del museo mattoni e cemento. Essendo Skype e Spotify due app inventate in Svezia, ho provato a vedere se il Moderna Museet potesse diventare appetibile per loro. Poi ho coinvolto il collezionista Gerard De Geer per immaginare un’arte alla portata di tutti attraverso queste tecnologie e infine ho coinvolto l’artista Olafur Eliasson, quello che definirei un "nerd low tech", e così è nata Acute Art».
Con Eliasson avete appena lanciato Wunderkammer, la stanza delle meraviglie.
«Basta scaricare un’app e si possono avere dentro casa un piccolo sistema solare, nuvole che fanno piovere e persino una coccinella in salotto».
I musei sembrano interessati al vostro esperimento...
«Abbiamo collaborato con l’artista cinese Cao Fei in occasione della sua mostra alla Serpentine: lo spettatore poteva immergersi nella realtà della Cina anni Sessanta».
Per i profani che differenza c’è fra Ar, augmented reality, e Vr, virtual reality?
« L’augmented reality si può godere solo sullo schermo dello smartphone, come nel progetto dell’artista coreana Koo Jeong A, che consentiva di mettere un cubo di ghiaccio nei posti più impensati. Per la realtà virtuale servono occhiali che ricordano quelli dei videorama».
Gli artisti saranno in grado di farci dimenticare la tecnologia per mostrarci solo l’arte?
«Perché no? Nella nostra vita quotidiana già ci dimentichiamo della tecnologia: scriviamo, creiamo, comunichiamo con strumenti dei quali, da un punto di vista tecnologico, non sappiamo praticamente nulla».
State pensando di espandervi in altre discipline?
«Stiamo pensando alla moda, alla musica e all’architettura, il problema è come. Abbiamo parlato con Virgil Abloh, direttore artistico di Louis Vuitton, che sta immaginando un progetto che abbia a che fare con l’arte e la filosofia di Marcel Duchamp. Vogliamo creare qualcosa che non esiste, non arte che già abbiamo visto nella realtà normale. La mia speranza è che nasca un nuovo linguaggio con nuove regole».
Negli anni ’80 andai a New York a vedere a Soho il museo degli ologrammi, che allora erano considerati la tecnologia del futuro. Il posto era tristissimo e si capiva che tutto era destinato a invecchiare velocemente. Ha paura che qualcosa del genere possa avvenire anche per Ar e Vr?
«La differenza è che l’ologramma non faceva parte della nostra vita di tutti i giorni. Vr e Ar usano una tecnologia che è familiare tanto quanto uno spazzolino da denti. Ricordo a Francoforte la discussione fra due professori, Peter Kubelka e Peter Weibel. Weibel era un’artista all’avanguardia per le nuove tecnologie mentre per Kubelka usare un video anziché una pellicola super 8 era un crimine e diceva che piuttosto che insegnare agli studenti a usare tecnologie utilizzate dagli eserciti preferiva insegnare a fare il pane e a spalmarci il burro. Ma oggi accanto a pane e burro, sul tavolo della colazione abbiamo lo smartphone.
Con Acute Art accanto al caffè possiamo "installare" un’opera d’arte. Le possibilità sono moltissime».
In futuro ci sposteremo meno per vedere l’arte?
«Non escluderei una Biennale da godere seduti al tavolino di un bar. In un libro che ho letto di recente sul gruppo musicale Kraftwerk, i fondatori Florian Schneider e Ralf Hütter erano in cima a una montagna e con un marchingegno immaginavano di fare un concerto a distanza con dei robot. Oggi è possibilissimo».
C’è il rischio che le nuove generazioni considerino la realtà noiosa e i musei poco interessanti?
«Può darsi. Lo ha già scritto Douglas Coupland, l’autore di Generazione X. Tanto ci abitueremo alla realtà virtuale che quando torneremo nel mondo vero tutto sarà deprimente».
Le opere d’arte diventeranno come gli antichi manoscritti? Un oggetto per soli studiosi?
«Non mi sento di escluderlo».
E i musei che faranno?
«Saranno obbligati a prendere in considerazione altri formati. Musei come la Tate, che trasportano opere delicatissime con costi astronomici, si renderanno conto che servire cibo vegano o vegetariano nel caffè non sarà abbastanza».
Un progetto con Acute costa meno di una mostra?
«Molto meno. E ci sono ventenni che fanno cose incredibili con gli strumenti che hanno. Là fuori c’è già un Mozart della realtà virtuale o aumentata pronto a regalarci il capolavoro del futuro».