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 2020  luglio 07 Martedì calendario

Le mille vite di Francesco Storace

Con un inno alla «buona borghesia romana», quella borghesia di vecchio stampo che si nutre di «messa, parrocchia, prete, altari e confessionali», Francesco Storace è riemerso come vicedirettore de “Il Tempo”, il giornale più conservatore della capitale.
Non si può dire che sia tornato: lui non se n’è mai andato, negli ultimi trent’anni si è solo spostato. Partito come redattore abusivo del Secolo d’Italia, è diventato portavoce di Fini, deputato del Msi, presidente della Vigilanza Rai, governatore del Lazio, ministro della Salute, segretario de La Destra, presidente del Movimento Nazionale per la Sovranità, direttore del Giornale d’Italia e poi del Secolo d’Italia, prima di entrare come numero due nel quotidiano che condivide con Palazzo Chigi l’affaccio su piazza Colonna.
E anche se lui s’è seduto su poltrone ben più potenti di quella di un vicedirettore, la sua riapparizione sulla scena politica – formalmente al servizio, come scrive lui, di «sua maestà la notizia» – ha il sapore dolce della rivincita, come prova l’inaspettato «in bocca al lupo» di Nicola Zingaretti, che lo definisce cavallerescamente «un avversario politico con tanta passione ed impegno» dopo averlo battuto alle regionali.
La passione politica certo non è mai mancata, a Storace. Ne aveva pure troppa, quando da ragazzo era sempre pronto a fare a botte con i rossi. «Passava per strada un picchiatore della sinistra – raccontò una volta – e per fare un po’ i bulli dicemmo “vieni qua stronzetto”. Proprio in quel momento passava un autobus pieno di compagni. Me ne diedero tantissime ». Ma lui, prima e dopo, ne ha date altrettante. Anche ai suoi compagni di partito. A cominciare da Gianfranco Fini, che fu a lungo il suo mentore: «Lui è il capo e non si discute» ripeteva, fiero di esserne il portavoce ma anche il gran suggeritore, un Casalino ante litteram felice di essere riuscito a far innervosire Rutelli, avversario del capo nella battaglia per il Campidoglio, mettendo in giro la voce di un inesistente dossier su sua moglie. Il rapporto si incrinò quando Fini osò includere il fascismo nel «male assoluto» dell’Olocausto, e l’ex portavoce – che non ha mai rinnegato il duce – lo accusò di «conformismo liberaloide». E precipitò nell’odio quando Fini fu travolto dallo scandalo della casa di Montecarlo, e l’ex fedelissimo commentò perfido: «Se l’induzione al suicidio non fosse reato, gli suggerirei di spararsi ». E certo c’era la passione, oltre all’ambizione, nella decisione di sfidare il suo storico alleato Gianni Alemanno nella corsa al Campidoglio, e anche in quella di tornare insieme – lui presidente, l’altro segretario – sotto la bandiera del Movimento Nazionale per la Sovranità che fu ammainata ancora prima della successiva battaglia. La stessa passione che lui mise nella scelta di allearsi con Alessandra Mussolini dopo che proprio lei aveva fatto scoppiare il Laziogate, lo scandalo delle intrusioni informatiche e dei dossier rubati che costò a Storace le dimissioni da ministro e una condanna a un anno e sei mesi di carcere (cui seguirono però un’assoluzione piena e una completa riabilitazione nel processo d’appello).
Una vita spericolata, insomma. L’ultima sfida sul campo è stata quella, perduta, contro Zingaretti. Poi il giornalista che era diventato onorevole, presidente, ministro e leader di partito, è tornato a fare il giornalista. Scoprendo il web, appostandosi su Twitter, presidiando Facebook, fino a riapprodare alla carta stampata. In attesa della prossima battaglia.