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 2020  luglio 07 Martedì calendario

Tutto intorno alla Turchia

Dalla crisi libica a quella nel Mediterraneo orientale, dallo scottante dossier migrazione – una minaccia che incombe sulle coste europee anche in tempi di pandemia – al dossier siriano, passando per il Corno d’Africa e i Balcani, una cosa ormai appare certa. Obtorto collo, costretta a mandare giù bocconi indigesti, l’Unione Europea (ma anche diversi suoi singoli Stati membri) non potrà prescindere dal dialogo con uno scomodo attore, la Turchia, e con le ambizioni dell’uomo che la guida dal lontano 2003: il presidente Recep Tayyip Erdogan.
Di lui si possono dire tante cose. Di problemi ne ha avuti, come tanti altri capi di Stato, forse anche di più. Ma i recenti successi, o quelli venduti come tali, soprattutto sul fronte internazionale, non sono mancati. E hanno consolidato quell’immagine di uomo forte, ertosi a protettore dell’Islam nel mondo, leader di un Paese che anela a divenire una grande potenza politica e diplomatica, non solo regionale. 
Sono trascorsi solo quattro anni dalla notte del 15 luglio 2016, quando Erdogan riuscì per un soffio a sventare un colpo di Stato militare, messo in atto da una parte delle forze armate e organizzato, secondo Erdogan, dal suo rivale, Fethullah Gülen, appoggiato da non meglio precisate potenze straniere. In pochi mesi Erdogan si è preso la rivincita. Una durissima repressione, con purghe conto i golpisti, veri o presunti. Un referendum che soltanto nove mesi dopo ha trasformato il Paese in una repubblica presidenziale in cui il presidente gode di potere così ampi da ricordare quelli di un moderno sultano. E il rafforzamento di quel processo di islamizzazione del Paese, visto con grande turbamento dall’anima laica della Turchia e dai Paesi occidentali. 
Quando sono arrivati anche i prevedibili insuccessi, come la profonda crisi economica scoppiata a fine 2018 (e tutt’ora in corso), e la successiva débâcle elettorale alle amministrative del 2019, con la perdita di Ankara e Istanbul, Erdogan, il moderno sultano, ha puntato ogni sforzo sulla politica estera. Nel conflitto siriano, con tre grandi campagne militari nel nord del Paese in soli quattro anni. In Africa, consolidando la presenza turca nel Corno: Nei Balcani, silenziosamente, organizzando una strategia di soft power. E soprattutto in Libia, divenendo la potenza che ha salvato – con un’operazione militare svoltasi quasi alla luce del sole – quel Governo di accordo nazionale retto da Fayez Serraj, e sostenuto dall’Onu. 
Quale direzione sta prendendo questa Turchia sempre più musulmana, meno europeista, e più presente sullo scacchiere internazionale? 
La fine delle illusioni
I leader europei non si creano più illusioni. Con la Turchia bisogna trattare. Lo sa bene l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, ieri in visita ad Ankara con un un’agenda impegnativa. Con il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusgolu, e quello della Difesa Hulusi Akar, Borrell, doveva affrontare i recenti sviluppi e le tensioni nelle relazioni tra la Turchia ed Europa, inclusi i problemi diplomatici tra Ankara e Parigi. Non si potrà evitare un altro argomento, tanto scottante quanto attuale; la crisi libica. E conseguentemente lo spinoso dossier migrazione.
Il disegno di Erdogan è sempre più chiaro: trasformare la Turchia in una potenza economica, politica e culturale. Da alcuni anni la Turchia è divenuta una sorta di faro per i Paesi islamici di tutto il mondo. Un’operazione frutto di scelte strategiche, come quella di ergersi a paladino della causa palestinese strappando questo prestigioso ruolo a un’Arabia Saudita sempre più vicina agli Stati Uniti e al presidente Donald Trump, e più accondiscendente con Israele. La Turchia ora ospita diversi movimenti palestinesi.
Lo stesso ha fatto, profondendo più sforzi e mezzi, con l’Organizzazione dei Fratelli musulmani, il movimento religioso islamico nato in Egitto e inviso soprattutto ad Arabia Saudita, Emirati Arabi, e al regime egiziano (dove è fuorilegge). Sfruttando il pugno di ferro usato dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi contro la Fratellanza musulmana (il 3 luglio 2013 aveva rovesciato con un colpo di Stato militare il presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli musulmani) Erdogan ha fatto della Turchia la roccaforte di questo movimento islamico mal tollerato anche dalla Casa Bianca ma presente in tanti nei Governi di tanti Paesi musulmani, incluso quello di Tripoli. 
Il fronte siriano
È ancora presto per dire se il neo-ottomanesimo di Erdogan (riportare il Paese a quel ruolo di potenza internazionale avuto fino alla prima guerra mondiale) stia funzionando. Ma la sua politica estera – definita aggressiva da diversi capi di Stato occidentali e dai suoi oppositori – sta raccogliendo frutti. In Siria ha portato avanti le sue campagne militari, strappando alle forze curde Ypg, le milizie addestrate e sostenute dagli Stati Uniti che si erano distinte nella guerra contro l’Isis, una fetta consistente del loro territorio. E impedendo al regime di Assad di riappropriarsene. Nel Mediterraneo orientale la Marina turca è stata piuttosto attiva, a volte minacciosa, nei confronti delle società energetiche straniere. 
Ma è in Libia dove l’attivismo turco è stato finora vincente. Prima, lo scorso 27 novembre, Erdogan ha stretto con il premier libico Serraj un controverso accordo per la definizione dei confini marittimi e lo sfruttamento delle rispettive zone economiche esclusive nel Mar Mediterraneo, che di fatto tagliava in due il Mediterraneo orientale e ostacolava la posa di futuri gasdotti. Poi ha inviato mercenari siriani a difendere la capitale libica dall’assedio stretto dalle milizie del generale Khalifa Haftar (appoggiato da Emirati Arabi, Egitto e indirettamente anche da Francia e Russia). Infine ha inviato blindati, armamenti pesanti, droni e militari. Il risultato è stato sorprendente. Le forze di Haftar hanno subito cocenti sconfitte ripiegando a Sirte, 500 km a est di Tripoli. 
L’accordo di cessate il fuoco che si sta cercando di negoziare non può non vedere come protagonisti i mediatori turchi, con buona pace dei Paesi europei che ambivano a porsi come interlocutori privilegiati nel processo di transizione libico (soprattutto Italia e Francia). 
Il semaforo verde di Trump
Difficile rimuovere la presenza turca dalla Libia. Anche perché Erdogan ha ottenuto una sorta di semaforo verde da Trump. Ai vertici militari americani non dà per nulla fastidio che un Paese membro della Nato abbia ridimensionato la presenza e le ambizioni russe in Libia. E lo stesso Erdogan ha ammorbidito i toni sul bollente dossier degli S-400, il sofisticato sistema missilistico acquistato dalla Russia e visto come fumo negli occhi dai Paesi Nato, in testa gli Usa. Doveva attivarlo in aprile ma, per non rischiare sanzioni americane, ha rimandato tutto. 
C’è infine un altro dossier che rischia di creare ulteriori tensioni con l’Europa: quello della migrazione. La Turchia, che controlla il delicato corridoio balcanico (e ha stretto con Bruxelles un accordo da sei miliardi di euro per gestire i migranti), ora rischia di controllare anche il corridoio libico. Certo, l’Italia ha stretto un recente accordo con il Governo di Tripoli. Ma come escludere che anche con la Libia la Turchia possa usare l’arma del ricatto(allentare i controlli e lasciar partire i migranti) per ottenere nuove concessioni? 
L’Europa guarda con crescente preoccupazione all’ascesa internazionale della Turchia, Paese che tuttavia sta attraversando una grave crisi economica. Indubbio che il processo di islamizzazione abbia preso forza, ma la Turchia è composta da due grandi anime. Quella laica e cittadina (da sempre vicina all’Europa), e quella più religiosa e rurale. Kemal Ataturk non riuscì a vincere la battaglia per laicizzare completamente il Paese, sradicare le scuole religiose. Difficilmente Erdogan riuscirà a fare altrettanto con la parte secolare.