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 2020  luglio 06 Lunedì calendario

Egitto ed Etiopia divisi da una diga

Il vecchio Nilo tinto di azzurro, gonfio di linfe, è come un panno, assomiglia a una fluente stoffa di seta, come quando si stende un lenzuolo sull’erba, che appena c’è, qua e là, un cespo più alto gli impone una gobba. Tagliato dalla prua delle barche si scosta sbavando a malincuore. Non c’è fruscio.
Ogni giorno per seimila chilometri, da millenni, sotto gli occhi di chi guarda, aperto come un enorme fiore di umanità, si svolge il culto del Nilo. Migliaia e migliaia di uomini vi si immergono, lo bevono a lunghe sorsate, vi portano le mandrie per salvarle dalla sete, vi si avvolgono come nelle braccia di una madre, la sola madre da cui si attendono qualche sollievo.
Dall’alto della nuova diga di Guba, «la diga della Rinascita», in Etiopia si scopre un panorama di una maestà quieta, remota e splendente, come guardare il fondovalle dalla cima dei monti. Questo braccio del fiume si allaccerà a Khartoum, in Sudan, con il Nilo Bianco che scende dal lago Vittoria. Da un lato corre per aride catene di colline un gibboso deserto. Alla diga ne arriva, con il vento, il fiato caldo, gonfio di sete, la infinita pigrizia, il sapore di terre inutili e morte. Ma dall’altro la terra verdeggia di campagne che sembrano vaste. Eppure ne indovini la precarietà fitta di altre sabbie e rocce silenziose. Una possibilità, non un destino.


Causa e ragione delle cose
Perché il corso del Nilo è un accidentato svolgersi di colpi di scena: rapide, laghi, acquitrini, canali, scarti, cateratte. E dighe. Poco prima dell’incontro tra i due rami sembra che i fiume debba spegnersi, affondare in una terra marcia e mortale: il Sudd, cimitero di acque sommerse, di vaganti e spesse isole di erbe e papiri dove i battelli smarrivano la via e finivano, lentamente imprigionati nelle spire vegetali. Fino a morire.
A chi appartiene un fiume? Perché i fiumi così fatali, così intrisi di Storia hanno una identità, sono causa e ragione di tutte le cose, sono un accumulo di miti: il Nilo è arabo o africano?
Vista da qui, dalla più grande diga idroelettrica dell’Africa, non è una domanda letteraria: è una domanda politica attorno a cui friggono gli umori frenetici, i nazionalismi, le scommesse economiche di tre Paesi, Egitto, Sudan ed Etiopia.
Al centro del tumulto, sì, è una guerra dell’acqua, questa gigantesca chiavarda, il grande petto in cemento alzato contro la valanga d’acqua che scende dal lago Tana. Durante gli otto anni di lavori l’acqua si è fatta rossiccia come sangue vecchio, lascia un infinito tatuaggio di melma tra le barriere di cemento armato. Ma quando il fiume scivolerà nel nuovo letto per colmare il grande bacino ritroverà il colore del suo nome. E sarà presto. È ora. Perché l’Etiopia ha fretta: entro le prossime due settimane, entro luglio, costi quel che costi, approfittando della stagione delle piogge, comincerà a riempire il bacino. E sarà un nuovo miracolo, comparirà un lago di più di 1.500 chilometri quadrati, quattordici metri di profondità, che alimenterà una centrale elettrica da oltre seimila megawatt.


La scommessa del Nobel
Il primo ministro etiope Abiy Ahmed , il premio Nobel per la Pace, vuole che la centrale sia operativa entro la fine di quest’anno e a pieno regime nel 2022. Sulla diga scommette le ambizioni di potenza regionale, il destino elettrico, industriale e agricolo dei suoi 110 milioni di abitanti sempre più iracondi e impazienti. Il mito del Nobel è già sfiorito, persino la sua tribù, gli oromo, a cui aveva promesso palingenesi, lo accusano di essere un incallito mestatore adagiato sui vecchi metodi della politica etiope. La diga serve a raffreddare umori e disordini etnici che hanno già causato un centinaio di morti.


Il presidente: tradimento
Tremila cinquecento chilometri più a Nord, al Cairo, un despota senza consenso che non sia la bruta Forza, Al Sisi, grida al tradimento, accusa l’Etiopia di violare la promessa di non procedere con decisioni unilaterali ma solo al termine di accordi negoziali. Urla un semplice slogan ai suoi fellah: il Nilo e la diga sono per noi questione di vita o di morte. 
La diga può abbassare il volume delle acque indispensabili per cento milioni di abitanti, triplicati in 50 anni. Per gli egiziani non ci possono essere dubbi. Sono loro i padroni del Nilo, i faraoni non sono un remoto passato, sono ieri, come i tempi dei kedivè ambiziosi e sommersi di debiti ma che volevano un impero fluviale, su fino alle montagne della Luna, fino ai Grandi Laghi dove si nascondeva il mistero della nascita di quel dio delle acque. Al Sisi cerca di infervorare: ci rubano con l’acqua l’onore, la sola ricchezza dei poveri. Ha trovato un bersaglio, l’Etiopia, su cui dirottare il domestico risentimento.


L’ansia del regime
In Sudan un altro regime è in ansia. Una fragile transizione democratica, una sorta di primavera araba fiorita in ritardo, è sospesa, rischia di appassire come le altre rinascenze del 2011. Il Sudan vuole la diga ma si interroga se davvero la elettricità servirà al suo sviluppo e a regolare le catastrofi delle piene. 
Incrollabile ormai nella sua statura di moderno monumento, la diga sembra più viva della stessa natura che la circonda. Sì. Verrebbe da dire, sfiorando per gli egiziani il sacrilegio, che è davvero opera faraonica. Innalzata a lottare, vittoriosamente, con le armi del peso e del volume, lunga come è, 1800 metri e alta 145, contro le acque le sabbie il sole il vento. Appena ultimata è già gonfia di decine di secoli sovrapposti l’uno dentro l’altro nei suoi strati di cemento. C’è dell’eterno nella sua mole stessa, fin da ora.
Inutile negarlo: è il miracolo del fatto tecnico che soggioga la natura. Un fiume immenso è stretto nel pugno dell’uomo come fosse un torrente e poi lo si fa scivolar via fra le dita, regolandone l’impeto, a comando. Personifica un fine, incarna una speranza.


Intervento fallimentare
Anche le questioni aperte sembrano avere impresso un marchio ciclopico. In quanto tempo sarà riempito il bacino? Si è discusso furiosamente a Washington a gennaio, durante una fallita mediazione americana. Un altro segno dell’indebolirsi della superpotenza, un tempo un batter di ciglio a Washington avrebbe inchinato alleati stretti dalle corde dei debiti e del sostegno militare. 
L’Egitto propone ventun anni, addirittura, per diluire gli effetti sul livello del Nilo. Addis Abeba replica: per noi da quattro a un massino di sette anni. E poi: chi deciderà quando il pugno che tiene in mano il fiume si deve aprire scatenando miliardi di tonnellate di acqua? E ancora: come regolarsi nei periodi sempre più lunghi di siccità?
L’Egitto invoca trattati del secolo scorso, quando l’Inghilterra teneva le chiavi del fiume o il mito di Nasser dominava il mondo arabo e i sudanesi erano pidocchiosi parenti poveri. Su un apporto medio annuale di 84 miliardi metri cubi di acqua ne aveva riservati a sé più di 55 miliardi lasciando il resto come mancia a Khartoum. E l’Etiopia? Che c’entra l’Etiopia con il Nilo? Il Nilo è arabo.


Faccia a faccia 
L’Egitto continua a succhiare la gratuita acqua del fiume e pratica una irrigazione per immersione delle terre, scialacquatrice come ai beati tempi dei ramessidi e dei tolomei. La diga lo mette faccia a faccia con sé stesso, brutalmente: con la sua incapacità di regolare i problemi dell’ambiente, della giustizia e della demografia. Al Cairo con il Nilo non si scherza. A una cantante, Sherine Abdel Wahab, i bambini chiedevano, petulanti, una canzonetta dal titolo: «Hai bevuto l’acqua del Nilo?». Lei ha risposto infastidita, scherzando: «Ma no! Siete matti? vi beccate la bilarziosi. Bevete l’Evian». Un tribunale l’ha condannata a sei mesi.