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 2020  luglio 06 Lunedì calendario

Semplificare, non basta la parola

Di decreti Semplificazione sono lastricate le sale di Palazzo Chigi: ce ne sono di ogni ordine e grado nella storia repubblicana. Tra i più folkloristici quello presentato da Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione nel 2010. Munito di un lanciafiamme, prometteva di incenerire 375 mila leggi. Strano numero, non sappiamo da chi suggerito, perché si trattava di quasi il doppio delle norme entrate in vigore dai tempi dello Statuto Albertino.
Attualmente c’è un Patto per la Semplificazione e un’Agenda per la semplificazione. Secondo il sito della Funzione pubblica funzionano a meraviglia. Ora il governo interviene con un nuovo decreto che dovrebbe velocizzare tutto, dall’attuazione delle norme d’emergenza alle opere pubbliche che potranno essere realizzate coi fondi europei, se mai li chiederemo per tempo senza perdere altre settimane in Stati generali.
In quella occasione il Presidente del Consiglio ha tuonato contro la burocrazia: «Noi abbiamo messo in campo 80 miliardi, come tre leggi di bilancio», ma «a causa di un apparato burocratico non pronto, ci sono stati troppi ritardi nel pagamento di bonus e cassa integrazione». Tuttavia il decreto non fa nulla per affrontare questi ritardi, in gran parte attribuibili alla bulimia di strumenti creati ex-novo per l’emergenza. Il governo ha attivato in questi mesi ben 22 nuove prestazioni sociali, e ha poi cambiato in corso d’opera le condizioni di accesso e di erogazione a molte di queste. Quanto tempo vogliamo dare alle amministrazioni per chiarire come interpretare le condizioni di accesso alle prestazioni, e per costruire ex novo le procedure informatiche? Se il governo voleva fare più in fretta doveva basarsi su procedure già in gran parte operative, testandole prima opportunamente, anziché crearne di nuove.
Nulla è previsto nel decreto Semplificazione anche sui controlli della giustizia amministrativa, che potrebbero essere resi successivi anziché preventivi, velocizzando le procedure. Di positivo c’è il tentativo di definire in modo più preciso il reato di abuso d’ufficio che nella sua formulazione attuale, per la sua indeterminatezza, sparge il terrore anche tra amministratori locali e dirigenti pubblici ispirati dalle migliori intenzioni.
Il decreto interviene sui tempi di affidamento delle opere pubbliche (gare d’appalto, procedure negoziate, etc.) ma non sui ritardi nella progettazione ed esecuzione delle opere, il vero problema del nostro Paese. Al di sotto dei 150.000 euro si potrà procedere con affidamento diretto, senza comparazione di preventivi di spesa. Sopra questa soglia (ma al di sotto di quelle comunitarie) si potrà procedere senza gara aperta, ma semplicemente negoziando cinque offerte. In compenso si ricorre al principio di rotazione, che però rischia di essere un boomerang: quanta cura avrà nel realizzare un’opera un’impresa che sa di non poter esser richiamata in futuro? Negli Stati Uniti nel 2018 si è proceduto in modo opposto, alzando da 150.000 a 250.000 dollari la soglia del procurement federale entro cui si applica la “procedura semplificata”, comunque più stringente dell’affidamento diretto.
Vengono per la prima volta imposti termini per il completamento delle procedure, ma senza specificare cosa accade se non vengono rispettati. Il funzionario che non stipula tempestivamente il contratto o che procede tardivamente all’esecuzione viene considerato responsabile di danno erariale, ma come sempre quando si introducono termini generici (come “tardivo” o “tempestivo”) il rischio è di complicare anziché semplificare.
Ma soprattutto non si interviene su ciò che impedisce di fare i controlli in tempi rapidi. In Italia c’è un numero spropositato di enti pubblici che possono indire gare d’appalto. Se ne contano più di 32.000. Questa esplosione è in parte frutto del federalismo e in parte dovuta a lotte di potere fra diverse amministrazioni. La polverizzazione delle stazioni appaltanti non permette di raggiungere quella massa critica di competenze necessaria per disegnare in modo adeguato le gare e controllare bene e velocemente l’esecuzione.
Servirebbe anche una vera banca dati che registri tutti i contratti pubblici, gli importi, il numero di concorrenti, etc. Permetterebbe di definire un rating delle imprese in base alla loro affidabilità, contribuendo anche in questo modo alla riduzione dei tempi di esecuzione, la cosa dopotutto più importante. La banca dati era uno dei piatti forti del decreto Semplificazione del 2012 (il decreto “Semplifica Italia!” con tanto di punto esclamativo), ma in verità era già prevista dal Codice degli Appalti del 2006. Speriamo di non dover aspettare un nuovo decreto semplificazione, magari fra altri 15 anni, per vederla realizzata.