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 2020  luglio 03 Venerdì calendario

Su "Jürgen Klopp. Scatenate l’inferno" di Raphael Honigstein (Rizzoli)

LONDRA. Anni Settanta. Glatten, Foresta Nera tedesca. Norbert Klopp è un colletto bianco di mezza età, ex portiere ossessionato dallo sport e istruttore di calcio, sci e tennis del figlio. Che, sin da piccolo, sottopone a un allenamento ultracompetitivo: "Al mattino presto, non importa che tempo facesse, mi faceva partire correndo dalla linea di fondo campo. Mi lasciava qualche metro di vantaggio e poi si metteva a correre anche lui, superandomi. Era tutt’altro che divertente". Una delle sorelle del bambino, Isolde, tira un sospiro di sollievo: "Le aspettative sportive di mio padre si spostarono subito sul figlio maschio. La nascita di Jürgen è stata la mia vera fortuna".

Però no, non è Open con l’umiliazione psicofisica di Andre Agassi. È solo la storia di Jürgen Klopp, 53 anni, figlio di un padre esigente ma amorevole, oggi l’allenatore di calcio più famoso e carismatico del mondo, condottiero dell’agognato successo in Premier League del Liverpool dopo 30 anni di astinenza e protagonista di Jürgen Klopp. Scatenate l’inferno (Rizzoli, pp. 352, euro 18), sua essenziale biografia scritta dal giornalista anglo-tedesco Raphael Honigstein.

Ma chi è davvero "Kloppo", come lo chiamano gli svevi tedeschi in gioventù? Un allenatore straordinario, ovvio. Ma, come lo affresca Honigstein, soprattutto una persona di rara umanità. Altrimenti, al Borussia Dortmund che ha allenato fino al 2015, non lo avrebbero adorato tutti così tanto, dai calciatori fino agli steward. Altrimenti, a Liverpool non sarebbe diventato pure consulente sentimentale di alcuni dipendenti che bussano al suo studio. "Klopp ha tutto", ci dice Honigstein che vive a Londra e scrive per Spiegel e Athletic Uk. È il contrario dell’uomo senza qualità di Musil. O la Gesamtkunstwerk, "l’opera d’arte totale" del calcio. "Ha un eccezionale lato umano e un’intelligenza emozionale tale per cui potrebbe fare il Ceo della Apple anche se non sa nulla di tecnologia. Gli piacciono gli esseri umani. Ma, come tutti i migliori leader, sa circondarsi di buoni".

Perché ci sono due Klopp. Quello che vediamo in campo, che sbraita sulla linea del fallo laterale in tuta, cappellino, barba e occhiali spessi. Che con il suo Gegenpressing, il "contro-pressing" totale per cui appena si perde la palla si aggrediscono gli avversari nella loro metà campo come mastini compressi in 20-30 metri, ha fatto la fortuna del Mainz, del Borussia Dortmund e in ultimo del Liverpool. E poi c’è Jürgen der Lange, quello "alto" della Foresta Nera, per cui "una squadra è una famiglia". Già, lo stesso motto del leggendario allenatore operaio dei Reds, Bill Shankly. Il Liverpool e i suoi valori popolari ("Sono più di sinistra che di centro") erano nel destino. Pochi mesi prima però, Klopp riceve un’altra offerta, dal Manchester United: "Dissi subito di no" ammetterà poi, "sembrava volessero vendermi qualcosa...".

Il bavarese e 47enne Honigstein raramente si è commosso nella sua carriera. "Eppure", ci racconta, "mi è capitato l’anno scorso, a Madrid dopo la vittoria della Champions League contro il Tottenham". La prima coppa "dalle grandi orecchie" di Klopp, dopo due finali perse, sempre con il Liverpool l’anno prima e nel 2013 in Borussia-Bayern. "Quella sera, ho assistito a una strana felicità parlando con i giocatori dopo la partita. Non era la felicità di Cristiano Ronaldo, quando vince. No. Tutti erano felici perché avevano reso felice qualcun altro, e non solo se stessi: un padre, il proprio allenatore, un compagno di squadra. La base del successo di Klopp è proprio questa: si lavora, si perde, si vince, si vive insieme". Come in una famiglia.

Ma un buon vincente deve essere anche un bravo perdente. "O meglio" precisa Honigstein, "Jürgen ha imparato immensamente dalle sconfitte. Non tanto dalle due Champions perse, o dall’Europa League col Dortmund strappatagli dal Siviglia, o dal secondo posto della Premier col record di 97 punti dietro il City. Ma, nel 2002 e 2003, dalle due promozioni di fila perse col Mainz all’ultima giornata. Quelle gli fecero molto più male delle finali europee: era come vincere la lotteria per due volte consecutive, e perdere il biglietto".

Che poi, nel 2001, Klopp diventa allenatore per caso, durante il Carnevale di Magonza. Qualcuno in Germania sostiene che i dirigenti quel giorno abbiano bevuto troppo per scegliere Klopp come allenatore-giocatore, uno "ingestibile" che nel frattempo da attaccante si era convertito in discreto difensore amante di salsicce, patatine e sigarette. Invece, era il più intelligente, maniaco delle tattiche anche in campo. Il Mainz sceglie lui per resuscitare il calcio totale, ultra-tattico e 4-4-2 di Wolfgang Frank, i cui schemi facevano impazzire anche i suoi calciatori e che morirà di tumore al cervello nel 2013. Klopp, in suo onore, divora Febbre a 90’ di Nick Hornby e, dopo tante delusioni, riporta il Magonza in Bundesliga.

Frank era il maestro - molto più serioso - di Klopp, come Arrigo Sacchi per Frank. Per questo il calcio del Liverpool, e del Dortmund prima, somiglia così tanto a quel Milan stellare, anche per i campioni (Salah, Mané, Van Dijk, Alisson, Alexander-Arnold...) che ha accumulato nel tempo. Con le verticalizzazioni dei suoi, fendenti come un’opera di Lucio Fontana, Klopp è l’allenatore più "rock" di oggi, o "heavy metal" secondo alcuni calciatori. Al Dortmund, nel 2008, prende il posto di Thomas Doll e del suo calcio noiosissimo.

Klopp, sin dalla prima geniale conferenza stampa a Liverpool, si è sempre definito un "Normal One", annichilendo José Mourinho con inimitabile classe. A Dortmund indossava un cappellino con scritto "Pöhler", che nel dialetto della Ruhr indica qualcuno "che gioca un calcio alla vecchia maniera, su un prato la domenica mattina, alla buona, per amore del gioco". Se da mamma Elisabeth ha imparato la calma, da papà Norbert, prima di fargli giocare l’ultima partita di tennis e lasciarlo andare al suo male incurabile, ha imparato il sacrificio. Ma senza rinunciare a humour e leggerezza. 

Per l’ex stella del Bayern Monaco, Mario Basler, Klopp è "l’Obama bianco": "Entrambi hanno grande intelligenza ed esperienza, sono idoli e portatori di speranza". Ed entrambi incantano con le proprie parole. Per questo non vedremo mai Klopp nei "luna park" di Dubai o in Cina: "Nel mio lavoro, è fondamentale comunicare. L’unico altro Paese dove posso lavorare è il Regno Unito, perché so la lingua". 

Ma forse Klopp, cristiano protestante, due mogli e il figlio Marc di 32 anni che da giocatore non ha sfondato, incarna semplicemente il calcio, quello vero. "Non mi piace il calcio del possesso palla", dice nel libro, "non è il mio sport, non è la mia filosofia. Mi piace il calcio delle battaglie. Il calcio è più di un sistema: è la pioggia, i contrasti, il rumore dello stadio. Le tattiche sono fondamentali, ma non puoi vincere senza le emozioni". Non solo. Per Honigstein l’allenatore del Liverpool serba un’altra qualità ancestrale dell’essere umano: "Jürgen ama le storie. Ha una particolare abilità nello "scrivere" storie di calcio, che le persone non dimenticano. Anzi, molti le adorano. Klopp è il cantastorie del calcio".