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 2020  luglio 05 Domenica calendario

Elogio del treno

Ci sono libri che possono ingannare. Libri, insomma, che non mantengono le promesse. Poco male. A volte le pagine fedifraghe e millantatrici, dopo avere gettato la maschera e rivelato la loro vera natura, risarciscono il lettore in modo davvero piacevole. È il caso di Storia meravigliosa dei viaggi in treno, di Per Joahn Andersson. A dispetto del titolo, che profuma nostalgicamente di ferro, vapore e carbone, di velluti e legni pregiati, di chilometri che riavvolgono il passato, quest’opera è saldamente instradata sui binari del presente, e viaggia senza dubbio in direzione del futuro.
Andersson, giornalista-scrittore, cofondatore di «Vagabond», la più importante rivista di viaggi svedese, ha costruito infatti un reportage di attualità travestito da operazione-nostalgia, centrato su una questione più generale: l’autore si interroga, e noi con lui, sul perché viaggiamo, e sul come sta cambiando il nostro modo di viaggiare. Che è come interrogarci, in fondo, sul come cambia il nostro modo di vivere.
All’inizio del libro l’autore dichiara onestamente il suo obiettivo. Vuole usare il potere di «scrittore di viaggi» per spingerci a sognare treni a lunga percorrenza, vagoni letto e vagoni ristorante, vedute magnifiche e incontri emozionanti. Anche perché, ci fa cortesemente notare, l’aereo sembra avere il piombo nelle ali. Prima infatti volare era un lusso e un segno di classe, qualcosa cui tutti aspiravano. Poi è diventato popolare (tutti lo facevano). Ora volare è diventato quasi imbarazzante, alla luce dei problemi per il clima causati dalle emissioni degli aerei. E in considerazione della concorrenza spietata, sulla media distanza, dei più economici e meno inquinanti treni ad alta velocità.
Se aggiungiamo l’effetto Covid-19 (ma al momento di licenziare il libro la pandemia non ci aveva ancora chiusi in casa, e Andersson non la cita), il desiderio di una vita più riflessiva, di prossimità e di introspezione, di un modo di viaggiare più umano e tollerante, che solo il treno ci può dare, si fa urgente. Insomma, Andersson non si è limitato a scrivere un libro sui viaggi in treno. Ha scritto un vero e proprio Manifesto della ferrovia: «Noi vogliamo cantare l’amor della ferrovia, la familiarità con la locomotiva e la temerarietà del viaggio in treno libero, agile e indipendente».
Voltare la copertina, un robusto cartonato d’altri tempi, blu, raffinato ed elegante come una carrozza Pullman (tendine, velluti e abat-jourcompresi), è come chiudersi alle spalle lo sportello dell’Orient Express e accomodarsi in prima classe. E poi, dal finestrino, si osserva di tutto, e in tutto il mondo, con i binari che si estendono costantemente fino all’orizzonte.
Eccoci per esempio In India, dove la Nalgiri Mountain Railway, antica ferrovia di montagna che risale al 1899, decretata nel 2005 dall’Unesco patrimonio dell’umanità, ci porta con i suoi sedici ponti e le sue centoquaranta gallerie alla scoperta delle piantagioni di tè. È uno di quei viaggi che non si fanno per arrivare a destinazione, ma per ammirare scenari meravigliosi e meccanismi obsoleti, dal fascino quasi ipnotico, quelli di una locomotiva a vapore che sbuffa e ondeggia, lentissima, sopra le nuvole. Senza fretta, senza ansia: se si arriva troppo presto, anche la vita rischia di giungere rapidamente al capolinea. 
E quando il viaggio di Andersson esce dal tunnel della suggestione e del mistero, si trasforma in lucido reportage. Sull’implacabile taccuino dello scrittore svedese ricompare l’India, il Paese dove non esistono i treni vuoti, dove le ferrovie sono legate indissolubilmente all’immagine della nazione, dove ogni viaggio di migliaia di chilometri, al traino di robuste, sudate e sporchissime locomotive, diventa lezione su come è fatta la società.
I numeri sono da capogiro: gli indiani effettuano ogni anno undici miliardi di viaggi in treno, e la Indian Railways, la società che ha il monopolio dei tragitti su rotaia, conta un milione e mezzo di dipendenti. Nelle stazioni si materializzano e smaterializzano, a ogni arrivo e partenza, multicolori presenze umane che attraversano il subcontinente da sud a nord e da est a ovest, in viaggi che quasi sempre durano migliaia di chilometri. Una massa ordinatamente caotica di passeggeri, venditori ambulanti e addetti alle pulizie che si incrociano con mite e tenera cortesia. Vite che si fondono col paesaggio e sembrano antiche ed eterne.
Il profumo dei viaggi-nostalgia evapora inesorabilmente e si tinge di lucida analisi geopolitica nel capitolo dedicato alla nuova Via della Seta. Ovvero all’uso, intelligente e spregiudicato, che la Cina fa della diplomazia ferroviaria. Oltre a essersi dotata di una rete ad alta velocità di quasi trentamila chilometri, l’equivalente di quasi due terzi della rete ad alta velocità del mondo, la Cina costruisce reti ferroviarie in quasi tutti i paesi in via di sviluppo. Finanziate interamente con prestiti cinesi. Una strategia che permette a Pechino di estendere la sua influenza politica ed economica. 
Dal finestrino di Andersson si vede, e si rivede, di tutto. I grandi treni americani e i loro nomi suggestivi, come fossero esseri viventi o vecchi attori di Hollywood, dall’epopea del West a oggi. L’itinerario dell’Orient Express ripercorso ai giorni nostri. Lo storico viaggio di Lenin da Zurigo all’impero russo via Berlino e Finlandia, intrapreso nel 1917, alla volta di una rivoluzione. E poi una finestra aperta, spalancata, verso il possibile treno del futuro: l’hyperloop, il treno che viaggia ad altissima velocità, come una capsula della posta pneumatica, su un cuscino magnetico. 
Il treno come il lettino dello psicoanalista. È bello capire perché ci piace viaggiare, e perché in alcuni momenti vorremmo trovarci su un treno che non arriva mai a destinazione.