Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 05 Domenica calendario

Biografia di Norman Mailer

«Scrivere un libro è la cosa più vicina all’essere incinta che possa provare un uomo». Norman Mailer me lo disse al termine del nostro primo incontro, poi aggiunse «dolore, fatica e poi gioia, che viene insieme ad un senso di responsabilità e protezione». Lo avevo intervistato per il Vangelo secondo il figlio, un libro che non mi aveva convinto, e del quale riuscii a parlare il meno possibile. Ero emozionato, Mailer era circondato da un alone mitico: era l’autore di almeno due capolavori come Il nudo e il morto e La canzone del boia e un protagonista della vita culturale newyorkese. Dovevo a lui se avevo capito qualcosa del mistero fragile di Marilyn Monroe e gli ero grato per aver scritto La Sfida, lo straordinario racconto del match tra George Foreman e Mohammad Ali: con mia grande invidia aveva assistito a bordo ring a «The Rumble in the Jungle».
Sulle prime Mailer era stupito, forse infastidito per il fatto che non volessi parlare dell’ultimo libro, ma poi cominciò a raccontarmi i retroscena di quella notte leggendaria. Aveva praticato la boxe e condivideva quanto aveva immortalato Foreman: «È lo sport al quale tutti gli altri vogliono assomigliare». Me lo disse come se fosse una frase di Aristotele, poi aggiunse: «C’è qualcosa di ancestrale, anzi di eterno: in ogni combattimento vivono nuovamente Achille ed Ettore e i rituali sono affascinanti quanto lo stesso match». Neanche lui voleva parlare del libro: era stanco di ripetere le stesse cose a un ennesimo intervistatore e gli brillavano gli occhi quando ricordò Mohammed Alì, che salì sul ring dicendo «stasera danzeremo». Poi mi descrisse minuziosamente il KO, con Foreman che crollava al tappeto «come un maggiordomo di colore quando viene raggiunto da una brutta notizia».
Gli incontri, mi spiegò, si vincono prima della sfida, «quando i pugili ascoltano gli avvertimenti dell’arbitro e si minacciano con lo sguardo: è una promessa di dolore e vince chi riesce a superarla». Mi chiese se avessi praticato la boxe, come se fosse la cosa più normale del mondo. Da quella volta ogni volta che ci incontrammo finimmo sempre a parlare di pugilato, eppure la sua vita meritava più di un romanzo. Era nato in una famiglia ebraica a Long Branch, nel New Jersey, con il nome di Nachem Malech che aveva americanizzato in Norman Kingsley: Malech significa, come Kingsley, piccolo re. Era entrato ad Harvard a soli 16 anni e aveva raggiunto il successo a 25 con Il nudo e il morto: il libro traeva spunto dalle lettere scritte alla prima moglie Bea mentre combatteva nel Sud-Est asiatico. Da allora ha vinto due Pulitzer, ma sin da giovane ha dimostrato di avere una personalità più grande della vita e si è cimentato come attore, pugile, pittore, politico, polemista, regista, sceneggiatore e giornalista.
Dichiarava «se una persona non ha talento per fare il romanziere, intelligenza per fare l’avvocato e gli tremano le mani per poter fare il chirurgo, finisce per diventare giornalista», ma era fiero di essere stato, insieme con Gay Talese, Tom Wolfe e Joan Didion tra i fondatori del «New Journalism». Ha avuto infinite amanti e nove figli dalle sue sei mogli. Accoltellò la seconda, Adele Morales, dopo una lite furibonda, ed è un miracolo se sia sopravvissuta. «Ho commesso qualcosa di lurido e vigliacco», dichiarò, e fu condannato a tre anni con la condizionale, scontati i quali decise di candidarsi a sindaco di New York nelle liste democratiche. Fu sconfitto malamente, dopo una campagna tra le più picaresche della storia politica: il suo programma prevedeva che la città di New York diventasse il 51º Stato americano.
Nelle feroci polemiche con Gore Vidal si rinfacciarono le rispettive sconfitte: quest’ultimo aveva perso sia nel 1960 sia nel 1982 e una delle poche cose su cui erano d’accordo è che il loro approccio intellettuale non dialogava con le esigenze dell’elettorato. Negli scontri verbali sapeva mettere in pratica l’insegnamento di Zenone di Elea: era serissimo quando l’avversario usava l’ironia e scherzoso quando quest’ultimo era serio. La politica rimaneva la sua ossessione e In Miami and the Siege of Chicago elaborò la teoria della «politica come proprietà»: «Ogni uomo politico - spiegava - non ha dubbi su quanto è in suo possesso e ritiene che la sua proprietà sia più pregiata di tutte quelle adiacenti». La sua concezione non era molto diversa da quella di von Clausevitz, «guerra con altri mezzi», e quando i newyorkesi gli negarono l’elezione si sentì tradito dalla sua città d’adozione. Era stato tra i fondatori del Village Voice, ma anche il quel caso era stato il primo a fregiarsi di essere in minoranza: il giornale era nato come punto di riferimento della controcultura.
Amava visceralmente l’energia della midtown, ma aveva scelto di vivere a Brooklyn Heights, l’area più nobile di quel quartiere che un tempo era stato una città. Coltivava con orgoglio le proprie contraddizioni e aveva un approccio muscolare rispetto a qualunque problema: non c’era nulla che lo entusiasmasse come lo scontro. Uno degli elementi più rivelatori del memorabile The White Negro, nel quale sostiene che la gente di colore è «folle» a vivere in un Paese che la odia, è il modo in cui racconta come la prestanza fisica di alcuni afro-americani avesse messo in crisi il proprio machismo: è affascinante leggere in questa chiave anche la celebrazione del jazz come grande arte tipicamente nera. Fa parte del suo approccio contraddittorio il tentativo di comprendere il femminismo mettendosi nei panni di una donna in Prisoner of Sex. In seguito si limitò a dichiarare: «Non c’è nulla di sicuro nel sesso né mai ci sarà».
Aveva un rapporto di odio e amore con Hollywood, che raccontò in The Deer Park e nel libro su Marilyn ed era affascinato dagli ambienti in cui la corruzione rappresentava l’altro lato dell’energia: ne I duri non ballano racconta il rapporto tra criminalità organizzata e boxe ed è sintomatico che abbia voluto dirigere in prima persona la versione cinematografica del libro. Sergio Leone lo contattò per C’era una volta in America ed esistono almeno due stesure della sceneggiatura sulla quale ha lavorato, ma si è sempre rifiutato di dirmi cosa fosse rimasto nel film di quanto aveva scritto.
Amava in egual misura recitare: interpretò Stanford White per Milos Forman in Ragtime e Henry Houdini per Matthew Barney nel suo Cremaster. «È meno difficile di quanto possa sembrare - mi spiegò -: del resto nella vita lo facciamo tutti». Tra i disastri in cui riuscì a trovarsi coinvolto ci fu la sua richiesta di grazia per Jack Abbott, un criminale che si era appellato a lui dopo aver letto La canzone del boia. Mailer era rimasto colpito dal suo talento letterario e lo aiutò a pubblicare un libro, ma, uscito di galera, Abbott uccise a coltellate un ragazzo di 22 anni. «Non è una cosa di cui vado fiero», minimizzò, ma la vicenda lo scosse terribilmente.
Forse nulla ne rivela la personalità quanto l’invito da parte di Allan Dershowitz, il quale era riuscito a far assolvere Claus von Bulov da una condanna per l’omicidio della moglie. Il grande avvocato aveva organizzato un party per festeggiare la vittoria in tribunale e fece un brindisi dicendo che giustizia era stata fatta perché è un innocente non era stato mandato in galera. Mailer prese sottobraccio la moglie del momento e disse: «Andiamo via. Credevo che avremmo cenato con un uomo che aveva ucciso sua moglie: se non è così, è noioso».