La Stampa, 5 luglio 2020
Vivere con chip sottopelle
Ascoltare Ilgi Evecan e rimanere concentrati su quello che sta dicendo è difficile. Lo sguardo, e l’attenzione, sono fatalmente attratti dalla sua mano sinistra, più precisamente da una piccola porzione di pelle tra il pollice e l’indice. Non si vede nulla, in realtà, neanche una cicatrice.
Non si vede nulla, ma qualcosa c’è: un minuscolo microchip sottocutaneo impiantato due anni fa. «Sono una cyborg!» esclama divertita questa giovane donna svedese, con un curriculum e un’energia fuori dall’ordinario. Lei, che nella vita fa l’Innovation manager per Absolut Vodka ha deciso di essere tra le prime, oltre due anni fa, a sperimentare la nuova applicazione sviluppata e testata in Svezia. Fin qui, se si eccettuano le naturali associazioni ai Replicanti del cinema e una bibliografia sterminata sugli uomini-robot, nulla di straordinario, anche se decisamente inquietante: «Mi sono fatta impiantare il chip per semplificarmi la vita e perchè sono molto curiosa, adoro le novità e l’esplorazione delle potenzialità della tecnologia. Sono svedese, sono banalmente pragmatica, e il chip mi fa risparmiare tempo e pensieri». Con quell’affarino più piccolo di un chicco di riso Ilgi entra in palestra, paga il treno, prenota biglietti al teatro, al cinema, lo usa al posto del badge per entrare in ufficio, effettua pagamenti (per ora limitati). «Posso permettermi di perdere le chiavi e dimenticare il biglietto dell’autobus e, soprattutto, durante gli incontri di lavoro risparmio tempo ed evito contrattempi per scambiare contatti e documenti». Basta appoggiare la mano chippata sullo smartphone su cui vuole scaricare i dati e il destinatario, attraverso una app, riceve contatto, presentazione e qualsiasi informazione Ilgi decida di condividere. «L’impianto è praticamente indolore, come un leggero pizzicotto. Me lo ha fatto un tatuatore durante un Nordic Technologic Summit a Stoccolma». Costo 100 euro, durata dell’«operazione» 5 minuti. Insomma avvicinarsi al biohacking e allo spirito del transumanesimo è un attimo. «Capisco che quello che può fare impressione è che la tecnologia non faccia più solo parte della nostra vita, ma sia letteralmente dentro di noi. Ma che male c’è se può migliorarla?».
Oltre ai dubbi etici, per restare nel solco del pragmatismo nordico, ci sono quelli reali: se ti tagliano la mano per rubarti il chip? Se la sventoli per salutare un amico troppo vicino a un «pos»? «Non succede nulla - dice ridendo Hannes Sjöblad, biohacker della compagnia svedese Disruption - il chip impiantato sotto pelle è passivo, per nulla smart insomma. Molto più pericoloso tenere la carta di credito nel portafogli... ».
Gli impianti utilizzano tecnologia Nfc-Rfid (identificazione a radio frequenza) passiva, ovvero non hanno una batteria o altra fonte di alimentazione e quindi non possono trasmettere alcun segnale in modo indipendente. «Inoltre non possono essere usati per tracciare o monitorare le persone - aggiunge Sjöblad -. Funzionano insomma con la stessa tecnologia di quelli usati per i cani, nelle carte di credito, nel codice fiscale. I chip hanno dei protocolli si sicurezza avanzatissimi, poi certo, qualsiasi dispositivo è hackerabile, ma allora iniziamo con il buttare via i nostri telefoni e le nostre carte di credito contactless».
Sembrerebbe tutto molto facile e sicuro, ma in Italia, dove perfino l’applicazione Immuni ha fatto flop perchè sospettata di non proteggere i dati personali, l’idea di farsi impiantare un chip sottocutaneo non è stata accolta bene. Eppure una delle aziende più attive del settore, la Biohax, ha individuato proprio l’Italia come prossimo «mercato». «È più che comprensibile - dice Ilgi - è una questione di fiducia e di conoscenza tecnica. Ma chi si scandalizza per un chip e poi pubblica la sua intera vita sui social non sa cosa dice. Siamo costantemente controllati, manipolati negli acquisti, tracciati perfino nelle nostre opinioni politiche, il chip è un falso problema». Quella suggerita da Ilgi, insomma, sembra l’alternativa tra la grotta e il futuro. Ride, e sentenzia: «Io uso una regola semplice. Non metto mai nulla nel mio chip oppure sui social che non stamperei anche sulla mia t-shirt».
Il cammino del transumanesimo non si ferma certo a un congegno per pagare l’autobus. La prossima frontiera sarà quella di utilizzare i chip per la salute. Tutte le aziende ne stanno testando la fattibilità. L’idea è di implementare il chip in modo che possa registrare in tempo reale i parametri vitali (battito cardiaco, pressione, temperatura) e in caso di malattie l’alterazione dei valori: «Pensiamo a un diabetico, ad esempio: sarebbe utile avere un monitoraggio costante della glicemia - spiega Sjöblad - per non parlare di situazioni come quella che stiamo vivendo ora, ossia una pandemia». In questo caso i valori rilevati, o le cartelle cliniche «archiviate» nel chip, sarebbero - assicurano - totalmente privati e comunicati solo volontariamente al proprio medico o all’ospedale in caso di emergenza.
Per ora, Svezia a parte, dove sono stati impiantati 6.000 chip, i Paesi che hanno risposto meglio alla novità sono stati gli Stati Uniti (3.000) e Germania (500). La Biohax, però, scommette sull’Italia, nonostante l’accoglienza non sia stata delle migliori, con minacce di morte ai suoi dirigenti e una valanga spropositata di bufale culminate con teorie cospirazioniste che accusavano il premier Conte di essere in combutta con gli svedesi per installare microchip all’insaputa degli italiani. Eppure Biohax non molla: «Nonostante le premesse - dice Eric Larsen, Biohax Italia - siamo convinti che l’interesse sia forte, e la voglia di sperimentare molto alta». Una volta finiti i test e la fase beta la compagnia svedese sarà pronta per richiedere le autorizzazioni all’Istituto superiore della Sanità.