La Stampa, 5 luglio 2020
Football senza più i "pellerossa" di Washington
«Aunt Jemima», zietta Jemima, che da 130 anni con il suo sorriso da schiava liberata salutava gli americani dalle confezioni di latte acido per pancake, se ne è andata. E così pure Zio Ben, che garantiva sulla qualità del riso.
La prossima vittima nella lunga guerra contro l’uso di immagini, simboli, slogan discriminatori delle minoranze degli Stati Uniti - riaccesa dalle proteste sociali seguite all’uccisione di George Floyd - potrebbe essere il nome di una delle più famose squadre di football americano, i Washington Redskins. Il termine redskins, pellerossa, in realtà è sotto tiro da almeno mezzo secolo. Già nel 1972 una delegazione di nativi americani si rivolse al proprietario della squadra, Edward Bennett Williams, chiedendo che fosse cambiato: l’unica concessione fu modificare la parola «Scalpalo!» in «Battilo!» nell’inno sociale. Da allora la richiesta si è ripetuta regolarmente. «Non cambieremo mai il nome, mai», aveva sibilato nel 2013 l’attuale proprietario, Dan Snyder, quando ad alzare il dito era stato Barack Obama. Ora le cose potrebbero cambiare, e coinvolgere altre squadre e altri sport. Gli assalti alle statue e ai simboli del passato segregazionista continuano da settimane, la stagione della Nfl (coronavirus permettendo) si avvicina, così ieri un comunicato della franchigia - che sta molto a cuore all’establishment politico della capitale - ha ammesso che «alla luce degli avvenimenti in tutto il paese e dai riscontri della nostra comunità, i Washington Redskins sottoporranno ad una revisione il nome della squadra». È curioso notare come solo nel comunicato il termine «redskins» compaia sette volte. Quasi banale, invece, sottolineare come nella decisione un peso fondamentale lo abbia avuto la presa di posizione della FedEx, uno dei principali partner commerciali del team (lo stesso stadio dei Redskins si chiama FedEx Field) che il 2 luglio ha minacciato di interrompere la sponsorizzazione se il nome non sarà cambiato, così come Nike e Pepsi Cola. Tre marchi che da soli valgono 620 milioni di dollari per la squadra di Snyder. Il profilo del capo indiano dipinto sui caschi dei Redskins insomma sembra avere le ore contate, e non è il solo simbolo a rischiare. Anche i Cleveland Indians nel baseball stanno pensando di cambiare nome; del resto due anni fa hanno rimosso l’immagine di «Chief Wahoo» dalle divise e dai capellini. Nel 2002 un sondaggio di Sport Illustrated sosteneva che l’81 per cento dei nativi americani non riteneva offensivo l’uso di mascotte e nomi con riferimenti alla loro storia. Molti studi pubblicati in questi anni dimostrano invece che il fenomeno contribuisce a diffondere un’immagine «stereotipata e degradante» delle minoranze americane. Il sospetto è che a decidere il contenzioso non saranno però nobili questioni di principio, ma robuste (e ciniche) considerazioni commerciali.