Corriere della Sera, 5 luglio 2020
Biografia di Renata Colorni
Con Renata Colorni i discorsi non finiscono mai e non possono finire, tale è la storia da raccontare; tanta è la cultura che viene messa in campo con la rete di amicizie e di relazioni intellettuali. Parlando con lei, si capisce che l’editoria è un turbine che inghiotte idee e conoscenze e sputa libri e umanità; e al contrario: inghiotte libri e umanità, sputando fuori nuove idee e conoscenze. «La vita è strana», dice Renata. Ritrovarsi in pensione, dall’inizio di luglio, a 80 anni è un privilegio e una vertigine, dopo una vita a costruire edifici editoriali. «Pensare di andare dal parrucchiere invece di lavorare mi mette angoscia», dice. Sposata a vent’anni e madre di due figlie a 22, laureata in Filosofia medievale a 23, docente nelle scuole superiori tra Pavia, Stradella e Voghera, ha cominciato l’attività editoriale da FrancoAngeli, ha curato le opere di Freud per la Boringhieri, ha seguito la letteratura germanofona per l’Adelphi, ha tradotto Schnitzler, Dürrenmatt, Thomas Mann, Bernhard, Canetti, dal 1995 ha diretto i Meridiani, la collana di classici Mondadori. Totale: sessant’anni di lavoro. Ora il testimone passa a Luigi Belmonte, direttore Oscar e Classici, e al giovane poeta Marco Corsi, con incarico specifico per i Meridiani. «Con loro ho lavorato magnificamente in questi anni», dice.
«La vita è strana, sono sempre stata divisa tra tante cose: incerta tra fisica e filosofia, ho fatto testa o croce e mi sono iscritta a Filosofia, facevo filosofia medievale e seguivo corsi di filosofia della scienza e con enorme passione le lezioni del critico e filologo Lanfranco Caretti, un uomo pieno di fuoco, incantevole. Davo ripetizioni ai suoi figli, contenta di guadagnare qualcosa, perché i miei genitori non volevano che avessi troppi soldi in tasca, visto che per loro fumavo troppo…». Dopo l’assassinio, il 30 maggio 1944, del padre Eugenio Colorni, grande filosofo antifascista, rimase la madre Ursula Hirschmann, che si sarebbe sposata con Altiero Spinelli, padre dell’idea d’Europa, divenuto «papà» putativo di Renata. «I miei genitori avevano un’unica grande passione comune: la politica, gli Stati Uniti d’Europa. Mia madre è stata compagna di battaglia di Altiero per tutta la vita, anzi è andata un po’ in crisi quando il lavoro di Spinelli è entrato nelle istituzioni in forma più ufficiale».
Che ricordo ha di sua madre?
«Ricordo con ammirazione lo spirito libero. Mi ha insegnato il tedesco, la mia lingua madre, visto che in tedesco parlava anche con mio padre Eugenio. Non le piaceva fare la signora, moglie di… Amava la battaglia. Io la politica non l’ho mai praticata né studiata, ma l’ho sempre vissuta con passione. Non avrei mai potuto sposare qualcuno che non condividesse i valori etici e civili della mia famiglia, mentre l’ebraismo mi interessava meno, pur essendo ebrea al cento per cento, come diceva mia madre: Renata, ricordati che sei ebrea hundert Prozent…».
Che tipo era Paolo Boringhieri?
«Un uomo fantastico, timidissimo e originale, posseduto dalle sue passioni. La passione per la psicoanalisi gli ha regalato l’audacia: era un uomo parsimonioso, ma in questa impresa è stato molto prodigo. Cesare Musatti, già molto anziano, era terrorizzato dal non veder finita l’opera e mi faceva fretta: “Su, Renata, la smetta di cincischiare con il suo tedesco, vada avanti…”. Furono sei anni di lavoro».
Non molto per curare tutta l’opera di Freud.
«Ero chiamata a fare un lavoro molto rigoroso e coerente, anche dal punto di vista terminologico. Boringhieri capiva bene quanto fosse importante lo scrupolo».
A un certo punto, grazie a Renata, in Boringhieri arrivò Gian Arturo Ferrari, compagno di università e futuro boss della Mondadori. E vent’anni dopo sarebbe stato lui ad assumerla alla Mondadori per i Meridiani, esortato a farlo dall’amministratore delegato Franco Tatò.
«Gian Arturo mi chiamò una sera e mi disse: “Renata, fai quello che vuoi, ma devi sgominare la concorrenza”. Allora c’erano la Spiga di Garzanti, la Nave Argo dell’Adelphi, la Pléiade Einaudi, i Classici Rizzoli e i Bompiani… Si può dire che ce l’abbiamo fatta, pubblicando fino a 14 titoli l’anno».
Una sfida, dopo sedici anni all’Adelphi.
«All’Adelphi non decidevo io che cosa pubblicare, ma per le traduzioni ho avuto piena fiducia da Luciano Foà, mio grande maestro e amico, e da Roberto Calasso, con cui ci conoscevamo da quando eravamo ragazzini a Roma. La letteratura tedesca in quel momento era l’asse portante di Adelphi. Rivedevo le traduzioni altrui e ogni tanto ne facevo di mie. Come avrei potuto fare le pulci agli altri senza aver acquisito un prestigio mio di traduttrice?».
L’avventura ai Meridiani è raccontata in un numero dell’«Almanacco Guanda» curato nel 2012 da Ranieri Polese. L’anno scorso la collana inventata da Sereni ha compiuto il mezzo secolo, ma con la direzione Colorni il catalogo si è accresciuto dei tre quarti.
«Ero appena arrivata quando uscì il Meridiano Sereni a cura di Dante Isella. Mi dissi: è vero che Sereni è stato direttore della Mondadori, lo capisco, ma se si fa Sereni, perché non Caproni, Luzi, Bertolucci… Allora i poeti del Novecento nei Meridiani erano Montale, Saba, Ungaretti e Quasimodo...».
Il primo nome fu Attilio Bertolucci.
«Era il più vecchio. Capii lì l’importanza di lavorare con gli autori ancora in vita. Andai a trovarlo e mi vidi davanti quegli occhi azzurri bellissimi, un uomo d’un fascino pazzesco. Non ho mai conosciuto un nevrotico che abbia fatto della sua nevrosi un centro luminoso di poesia come lui. Incredibile. Aveva un telefonino e mi diceva: “Mi serve quando esce Ninetta per comperare i giornali, sta fuori almeno venti minuti e devo telefonarle due o tre volte”. Attilio viveva in simbiosi con sua moglie, come Meneghello con Katia. Meneghello, straordinario, ma matto come un cavallo… Parlavi con lui e rispondeva lei».
Come reagì Bertolucci?
«Mi disse: “La avverto subito che non voglio fare la fine del povero Vittorio, sepolto dalle varianti”. Era terrorizzato dalla filologia. Ci regalò un fantastico autocommento de La camera da letto. Sentiva il suo Meridiano come qualcosa da costruire insieme a noi. Quando Fo vinse il Nobel mi telefonò con un filo di voce: “Renata, hai sentito? Ma cosa ha scritto?”».
Con Mario Luzi fu molto diverso?
«Luzi considerava il Meridiano un atto dovuto, qualcosa che gli spettava ab aeterno: era gentile e affettuoso, ma come per una pietanza ordinata anni prima».
Renata mi mostra una cartolina di Arbasino. Era stato deciso, con Raffaele Manica, di accogliere nei Meridiani la prima edizione di Fratelli d’Italia, che negli anni lo scrittore rielaborò più volte. Era «un saluto un po’ turbato» in cui confessava, dopo una rapida rilettura: «Mi va talmente bene che mi domando perché mai l’ho riscritto». Quasi comico...
«La cartolina dice bene del rapporto tormentato di Alberto con i suoi testi. Il Meridiano Arbasino era imprescindibile per me. Fu lui a parlarne con Calasso per avere il permesso. Così come Ryszard Kapuscinski convinse Inge Feltrinelli, che era recalcitrante».
Non tutti hanno approvato il Meridiano dedicato a Camilleri.
«Appartiene alla nostra decisione di aprire la collana ad autori di alto intrattenimento e di genere: abbiamo Meridiani di Chandler, Hammett, Chiara, Bevilacqua… Anche la Pléiade, a cui i Meridiani si ispirano, per gli autori francesi ha delle maglie un po’ più larghe».
Con Pasolini come andò?
«L’agente Teresa De Simone disse che avevano già proposte da Einaudi e Garzanti e che non avrebbe mai dato i diritti alla Mondadori di Berlusconi. A meno che, aggiunse, non si faccia tutta l’opera. Ne parlai con Leonardo Mondadori e con Gian Arturo: tutto o niente, dieci volumi… Si decise per il tutto, reso possibile dall’impegno di Walter Siti, e fu quello il primo segnale della volontà di leadership».
Come si lavorava con Leonardo?
«Aveva il sentimento fortissimo dell’eccellenza della casa editrice. Quando in riunione parlai del Meridiano Bertolucci fece partire l’applauso. Con lui le cene per gli autori si concludevano sempre con una torta disegnata come la copertina del libro».
Ci sono ancora autori meridianizzabili?
«Sono in lavorazione Asor Rosa, Rodari, Maraini, poi Chiaromonte, Sbarbaro, Jane Austen ritradotta da Susanna Basso, Turgenev tradotto da Nicoletta Marcialis, Octavio Paz curato da Ernesto Franco, Mallarmé curato da Valerio Magrelli, Philip K. Dick a cura di Emanuele Trevi… E poi il progetto a cui tengo di più: l’epistolario di Saba, che è una leggenda della storia letteraria italiana, una vicenda intricata di eredità. Sono felice che si faccia, anche perché mio padre era molto amico di Saba».
E le lettere tra Calvino e Elsa De Giorgi? Per Maria Corti è il più bel carteggio d’amore del Novecento.
«Mi piacerebbe molto leggerlo e che la figlia Giovanna ne concedesse la pubblicazione».
La cosa di cui va più fiera?
«Le edizioni dei tedeschi curate da Luigi Reitani e Luca Crescenzi: Hölderlin, Thomas Mann, il Fontane di Baioni... E poi le cronologie. Avrei una trentina di biografie che sono gioielli narrativi da pubblicare a sé: quella di Ottiero Ottieri fatta dalla figlia Maria Pace, Cesare Garboli su Pascoli, Antonio Franchini su Camilleri, Nadia Fusini su Virginia Woolf…».
Amici?
«Il più vicino è stato Peppo Pontiggia, consigliere, confidente, maestro generoso, ironico, aperto. Amava talmente i libri che spesso ne teneva due copie: una da leggere e l’altra da conservare intonsa sullo scaffale. Quando sono entrata in Mondadori, è andato da Leonardo per dirgli che avevano preso una ragazza straordinaria. Avevo 55 anni. Dopo la sua morte, abbiamo fatto il Meridiano Pontiggia a tempo di record: in un anno. Per il Pascoli di Garboli sono passati quasi vent’anni».
Cosa farà adesso?
«Per il momento rispondo alle telefonate di lavoro per ricordare che sono in pensione».