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 2020  luglio 05 Domenica calendario

Se Messi cambiasse maglia finirebbe il calcio

Senza timore di esagerazione: se davvero Leo Messi cambiasse maglia finirebbe il calcio. Il calcio come l’abbiamo conosciuto. E finirebbe lui, ma questo è un dettaglio. Dicono che sia stanco del Barcellona e dell’attuale dirigenza, che non sopporti l’allenatore, né alcuni dei compagni, che abbiano pagato manipolatori della comunicazione per screditarlo, ex calciatori per insultarlo, che in definitiva quel che era “più che un club” sia diventato un qualunque circolo sul fiume, dove si lotta per l’armadietto migliore. Eppure Messi non può andarsene da lì, perché tradirebbe non solo se stesso, ma un’idea molto più grande di lui.
In questo mondo ballerino è l’ultimo uomo che non cambia musica. La maglia di Messi è l’unico totem calcistico riconoscibile in qualsiasi parte del mondo. Non esiste La maglia di Cristiano Ronaldo, perché ne ha avute tre importanti. Non esiste più (e non aveva la stessa forza evocativa universale) La maglia di Totti. Quella di Messi è il mantello di Superman. Per un bambino che stia in un campo profughi della Giordania, in uno slum dell’Africa centrale o che si senta solo e incompreso in un condominio del Canada ha lo stesso magico effetto: lo trasforma in altro, lo porta via, lo rende grande e invincibile. Ci riesce perché ha avuto quell’effetto con lui: arrivato a Barcellona Calimero, indossando quella maglia è diventato il cigno nero del calcio mondiale.
È rimasto piccolo, anche se un metro e settanta, non “un metro e mezzo” come ha sostenuto Dugarry, ma è diventato il caso che capita una volta per generazione: il figlio dell’impossibile. Hanno cambiato le righe, l’hanno fatta a scacchi, ci hanno messo lo sponsor, ma nel grande negozio all’ingresso dello stadio vedi i bambini di tutto il mondo entrare con gli occhi laser e puntare su quella: non desiderano altro. Suarez, perfino Nyemar sono passati invano, figurarsi Griezmann. Il loro limite è stato aver già avuto una storia. Messi se l’è costruita dentro quella maglia. O la maglia ha costruito la storia di Messi? Se si mette quella dell’Argentina diventa un calciatore speciale, ma non inconcepibile. Non dipende soltanto da chi gli ruota intorno, Maradona ha vinto un Mondiale con molto meno. È lui che non crede più a se stesso come dio minore.
Ho visto un servizio fotografico che cercava di proporlo come modello aspirazionale. In fondo CR7 se la cava anche vestito da carta da gioco e dà il meglio in mutande griffate. Messi non ce la fa né in smoking, né con gli occhiali, né col cappello. Volete vedere il re? Mettetegli la maglia del Barcellona. Ci sono connubi, nello sport come nella vita che rendono tutto straordinario senza fatica: il clic dei destini che s’incastrano e vivrete felici e contenti finché morte non vi separi. Nel calcio demotivante che si appresta a diventare un programma televisivo come tanti e quindi dovrà stravolgersi, allontanandosi dalla religione di sé e da ogni possibile slancio di fede, la maglia blaugrana numero dieci sulle spalle di un ragazzo argentino è l’ultimo simbolo. Oltre, ai confini del telecomando, ci sono la mimetica del Napoli che confondeva chiunque, i fulmini neri sul cielo giallo di Dortmund, Pelè al Cosmos e Ibrahimovic che vaga per il mondo pur di non tornare nel ghetto. E ci sarebbe, per Leo Messi, lo stesso rimpianto che trafisse Niki Lauda quando, cercata e trovata altrove l’estrema fortuna, prescrisse la propria sepoltura con indosso la tuta rossa della Ferrari. Ogni uomo un solo mantello e il resto son mutande.